Il film di D. Risi è del 1971.
È la storia di un giudice istruttore (U. Tognazzi) – in vigore il codice del 1930 – che decide di distruggere le prove che scagionerebbero un indagato nei cui confronti egli ha maturato una convinzione di responsabilità per la morte di una giovane escort: pensa a un omicidio o a una grave omissione di soccorso e ad una serie di altri reati strumentali (favoreggiamento, istigazione alla falsa testimonianza ecc.). Si era già determinato all’ emissione di un mandato di cattura.
Nella tradizione della cultura inquisitoria il giudice Bonifazi, così si chiama, aveva inanellato una serie di indizi che lo avevano portano a quel convincimento: dall’ iniziale bugia del sospettato sulla conoscenza della ragazza – di questo tipo fu il primo indizio anche a carico di Piazza, che gli costò la sottoposizione alla tortura nella storia della Colonna infame – al falso alibi che ha costruito per quella notte, all’oppiaceo che cagionò la morte, farmaco tedesco non venduto in Italia. Santinocito – così si chiama il sospettato (V. Gassman) – ha ammesso di recarsi spesso a Berlino e Monaco.
Il film, già dalle prime immagini, descrive quanto nel pensiero del giudice abbia influito il pregiudizio nei confronti del sospettato.
Affarista spregiudicato e industriale, molto introdotto in ambienti che contano e che gli garantiscono coperture. Da segnalare la macchietta del PM che sollecita la chiusura dell’indagine sulla morte di una “puttanella drogata” (viene in mente l’ostruzionismo del Procuratore ne “Il contesto” di Sciascia nei confronti dell’investigatore).
Per il giudice Santinocito è un fascistoide, cialtrone, spregiudicato e impunito.
Dalla breve inquadratura dei quotidiani letti dal giudice si colgono le sue simpatie politiche.
Protagonista del film è un moralismo acre e negativo del contesto in cui avviene l’incontro tra il giudice e il suo imputato, dipinto senza chiaroscuri.
All’inizio del film vediamo Bonifazi che presenzia compunto alla distruzione di un palazzo abusivo, compiaciuto per la legalità finalmente ristabilita; poi quando osserva una spiaggia inquinata, disseminata di animali morti.
Rappresentato con efficacia lo sfacelo di una società e della sua giustizia dai crolli e dall’ abbandono del vecchio e magniloquente “palazzaccio” di Roma, – sapremo che Bonifazi prova schifo per leggi che proteggerebbero i detentori del potere economico e consentirebbero loro di danneggiare la collettività.
Neppure la Famiglia è estranea alla nera rappresentazione di quella società e delle sue istituzioni.
Quella della giovane vittima: piccolissima borghesia che ne sfrutta consapevolmente il mestiere. Quella, agiatissima ma infelica, di Santinocito. Santinocito che non esita a far rinchiudere il padre – un onest’uomo – che si rifiuta di confermare un falso alibi.
Un mondo nel quale il giudice non si riconosce, che Risi aveva descritto con esasperata cifra grottesca già nel 1964, in pieno boom economico, ne “I mostri”: e si giunge alla sequenza clou, di nuovo sul litorale che, secondo il giudice, Santinocito e quelli come lui hanno trasformato in una discarica.
I due protagonisti si sono incontrati e hanno pranzato insieme al ristorante – l’idea è stata di Bonifazi – e, in una prima fase, sembra che si stabilisca una comunicazione e una comprensione tra Santinocito e il suo giudice: fino ad una agnizione che rimanderebbe alla loro infanzia durante le vacanze di entrambi a Cesenatico.
È un falso, costruito dalla logorroica affabulazione di Santinocito, un racconto che, però, è incoraggiato dal giudice: fino allo svelamento dell’inganno.
Il giudice lo apostrofa: “paracadutista, uomo vile e volgare”, Santinocito risponde “lei mi fa paura, mi odia a livello ideologico”.
Oltre a svelare l’intento moralizzatore del giudice, questo passaggio centrale rivela una tecnica inquisitoria collaudata: Santinocito dice di essere caduto in una trappola. In effetti pare proprio di sì. E’ quella descritta da Verri che riprende Claro (§8): il giudice che finge di ingraziarsi l’inquisito per farlo parlare.
Una “finzione diabolica” secondo l’opinione riportata da Manzoni.
La storia si conclude con la distruzione delle prove che scagionerebbero Santinocito – fu suicidio. Mentre la città è percorsa e vandalizzata da orde di tifosi che festeggiano la vittoria della nazionale contro l’odiata Inghilterra (qui la maschera di Gassman immaginata dal giudice, in divisa, canta la saga di Giarabub. Nei “Mostri” era il baraccato tifoso de “Una vitaccia”, tra di loro Bonifazi vede la smorfia proterva e urlante di Santinocito che rappresenta l’Italia corrotta, cialtrona e brutale che egli si sente di dovere e potere cambiare, grazie ai suoi poteri.
La commedia è del 1971: vi si respira l’aria della crisi sociale e politica che percorrerà l’Italia in modo drammatico per molti degli anni seguenti.
Sono passati più di quaranta anni e il tema delle opinioni private del giudice, anche oltre leggi che non condivide, del loro ostacolo rispetto al suo intento moralizzatore, continua oggi a proporsi. Ciò avviene in un contesto diverso.
Al posto della grottesca rappresentazione della istituzione giudiziaria e dell’isolamento del giudice istruttore, vediamo come all’autodafè della prima Repubblica e della sua classe politica, con l’avvicendarsi al governo di variegati “uomini nuovi”, abbia corrisposto un protagonismo del potere giudiziario, in particolare di quello requirente. Esso è riuscito ad affermarsi anche grazie alla demolizione dell’ultimo atto legislativo – il c.p.p. del 1989 – intenzionato a meglio garantire la libertà dei cittadini. La sostanziale immutabilità dell’ordinamento giudiziario ha continuato a porre al centro la questione della legittimazione del corpo giudiziario e della difesa dei confini e limiti di una politica penale affidata alle “opinioni private dei giudici” (Blakstone 1769) singoli o associati.