di vizio

“Lei è prevenuto contro di me! Lei non è un buon giudice!!”

 

 “In nome del popolo italiano” è un film di Dino Risi del 1971. Un’opera, realizzata oltre cinquanta anni fa, dunque, che conserva un’impressionante attualità. Gli interrogativi deontologici che pone restano centrali nell’esperienza del magistrato e come i dubbi sulla definizione del concetto di eversione sociale. Chi è il vero nemico della società, quando quest’ultima è corrotta in profondità e lo sviluppo economico completamente scisso dal progresso morale?

 Il film è un affresco senza sconti della realtà italiana d’inizio anni settanta, nella quale si alternano continue visioni decadenti. Quasi tutte le immagini, però, conservano un moderno vigore. La pellicola prende avvio con mostri architettonici in demolizione e mari inquinati dagli scarichi industriali; con il progredire della trama, ancora, la desolante rappresentazione di strade che si sgretolano con facilità inaudita così come di aree boschive incendiate a favore di lottizzazioni edilizie, figlie delle corruzioni e degli appalti truccati. L’orrore ambientale costituisce così l’emblema dell’avidità e del nichilismo etico di un paese che cerca complicità ad ogni livello attraverso un qualunquismo che permea tutte le sue componenti. Una società in decomposizione, quella rappresentata, annegata in un falso benessere conseguente al boom industriale, governato da egoismo, incultura, moralismo, conformismo: l’esito di uno sviluppo senza progresso, che si ritrova con la stessa chiarezza solo nelle miglior pagine di Pasolini. Un paese nel quale le strade – oggi si potrebbe dire i ponti – e i palazzi, a cominciare da quello di Giustizia, vengono giù a pezzi, segno della crisi della stessa magistratura. Anche in quest’ultima, infatti, convivono slanci giustizialisti, connivenze politiche, “strabismi legislativi” e domestici consigli rivolti con “simpatica” verso chi “pretende” di indagare in ogni direzione.

 Nel film i comportamenti censurabili vengono per lunga parte riferiti a Lorenzo Santenocito, interpretato da Vittorio Gassman. E’ l’industriale rimasto sistematicamente impunito dalle precedenti malefatte: inquinatore, arrogante trasgressore delle regole, anche quelle sulla circolazione stradale, inottemperante alle citazioni dei tribunali, istigatore di prostitute, coniuge indifferente, imprenditore convinto che il suo s ruolo di corruttore sia volano del progresso sociale; un mentitore freddo che ottiene prezzolati alibi falsi. Ma anche un uomo che cerca via via più disperatamente margini di confronto con il proprio inquirente, quando comincia ad avvertirne la pericolosità.

 Il giudice istruttore Mariano Bonifazi (Ugo Tognazzi), dal canto suo, per lunghi tratti, sembra solo l’integerrimo tutore della legalità, un “osso duro” il cui nominativo, appena proferito, rende meno tranquillo il legale di Santenocito; egli è un grigio borghese, reduce dal fallimento del proprio matrimonio, un uomo di sinistra – si direbbe oggi – disincantato e solo, fondamentalmente al pari dell’imprenditore con il quale, però, rifiuta qualsiasi complicità.

 Assai interessanti i piani di confronto tra il sospettato e l’inquirente. Nel film vi sono almeno tre incontri topici.

 Il primo avviene quando Santenocito, vestito da spavaldo centurione romano, viene portato manu militari in caserma ove trova ad attenderlo il giudice: qui, intesse un primo serrato confronto psicologico con l’inquisitore. Il linguaggio forbito (“aderenziale e desemplicizzato”) dell’imprenditore si scontra in maniera eclatante con quello burocratico e sostanzialista del giudice; si delinea così una prima linea di incomunicabilità tra i due personaggi che descrivono la stessa realtà in modi opposti. L’industriale nega di conoscere Silvana, la ragazza che il giudice sospetta vittima di omicidio: non si sente ancora esposto al pericolo degli elementi che il giudice ha iniziato a raccogliere (la raccomandazione fatta alla ragazza, il nome Renzo sul taccuino della donna, il numero del telefono del circolo canottieri del quale egli è socio). Palesa il suo disagio nel trovarsi in una caserma, luogo repressivo che crea squilibro rispetto ai rapporti di forza che è abituato a governare; ma anche effetto della rovina del palazzo di giustizia, costruito da “imprenditori truffaldini e amministratori collusi”, come dirà Bonifazi. E’ la prima occasione in cui si delineano le loro diverse opinioni politiche, le rispettive “ideologie” su come funziona o dovrebbe funzionare il mondo. Richiesto di un alibi, Santenocito ammette di non disporne, di avere una vita varia, per spiegare la quale si lascia sfuggire di essere stato dieci giorni prima a Berlino. Poco dopo, però, si descrive come uomo che la sera si rifugia in famiglia, comunità della quale emerge la desolazione; è però in essa che “recupera” il possibile alibi indicando di aver trascorso la notte “incriminata” a giocare con il padre a scopetta, prospettiva sulla quale presto comincerà a lavorare. Bonifazi incassa ma gli infligge il comando di restare in attesa della sua autorizzazione ad allontanarsi; così, Santenocito si manterrà, senza una reale ragione, fermo in piedi dinanzi alla porta per alcuni secondi. L’equilibrio tra i due è così rotto.

 Il secondo confronto tra i protagonisti si svolge dopo che Santenocito ha fatto portare via il padre rinchiudendolo in manicomio. L’imprenditore è arrivato al gesto di rara disumanità, per difendersi dal sospetto che sente crescere contro di lui; vuole evitare che l’alibi fallisca dinanzi alla resistenza a confermarlo opposta dal padre. Quando arriva Bonifazi il padre è già nell’autoambulanza, sulla via della clinica; il giudice indaga la casa, le foto, la vita intima dell’industriale, poi, cerca, in maniera anche obliqua, dalla moglie di Santenocito notizie sulla disponibilità da parte del marito del farmaco tedesco (il Ruhenol, all’origine della morte di Silvana); Santenocito sente tutto, nascosto dietro una porta. Poco dopo, sulla strada, il giudice accetta un passaggio dall’imprenditore ben sapendo che quest’ultimo ha simulato di rientrare a casa mentre in realtà ne è appena sortito. Mentre Santenocito continua a negare di conoscere il farmaco e la ragazza, il giudice ricostruisce come ritiene probabile siano andati i fatti; nella proiezione virtuale le sembianze del mascalzone sono già quelle di Santenocito ma il giudice nega di aver definito questa attribuzione. Il pregiudizio ha fatto un ulteriore passo avanti. L’imprenditore esprime il suo bisogno di “appoggiarsi” e aprirsi a Bonifazi; cerca di accreditare la funzione sociale svolta per trasformare l’ambiente costruendo case accoglienti ed esaudendo nuove esigenze umane; non si lascia sfuggire, in questa pur delicatissima situazione, l’occasione per rivolgere al giudice una surrettizia offerta di corruzione. Si fermano a mangiare in uno stabilimento marittimo, ognuno paga per sé. Lungo il mare, Santenocito ricorda i tempi in cui era bambino, confessa il suo sentimento attuale di solitudine. Ricorda quando, durante l’infanzia, andava in villeggiatura con i genitori vicino ad Anzio; Bonifazi sembra aprirsi, inizia a raccontare di quando anche lui andava a Cesenatico, si delineano reciproci scorci dell’infanzia.

 Inizia a piovere, la scena si stringe, sotto un comune ombrello che accoglie i protagonisti al colmo di un tronco trascinato a riva dalle onde.

 Gli uomini sono gli unici animali in continua espansione psicologica che non riescono a superare le barriere di incomunicabilità”. Santenocito enuncia il problema ma – quasi disperato – ravvisa uno spiraglio nella situazione di intimità creatasi. Inventa di sana pianta una comune frequentazione al bagno Rustichello a Cesenatico nel 1933, nel quale, bambini, avrebbero giocato assieme con un aquilone; lui era Pizzangrillo e il giudice era Marianino, il bimbo meno espansivo con la frangetta. Bonifazi prima lascia raccontare, poi quasi partecipa alla rievocazione, infine rompe l’apparente intimità, quella minima umanità che era sembrata aprirsi tra i due: “un cialtrone eri e un cialtrone sei rimasto”, così lo sbugiarda Bonifazi e svela le notizie non edificanti che ha assunto frattanto sul suo conto. Santenocito sostiene di essere vittima di una bassezza, di una trappola dell’interlocutore; Bonifazi, approfittando della riservatezza del colloquio, rompe la compostezza, gli confessa di essere stufo di applicare leggi che consentono ai detentori del potere economico di prosperare e arriva a offenderlo (“paracadutista”, “vile e volgare”), sostenendo che quelle leggi andrebbero cambiate. L’editto ideologico, così, è proclamato! Santenocito gli rinfaccia di odiarlo a livello ideologico e gli rivolge l’accusa: “Lei è prevenuto contro di me! Lei non è un buon giudice!!”.

 Il terzo e ultimo incontro si svolge dopo che Santenocito confessa al proprio avvocato di esser andato quel sabato sera a casa di Silvana ma di non essere salito avendola sentita piangere. Se ne era dunque andato a vedere da solo i terreni interessati dalla lottizzazione. Ora serve un alibi serio, occorre uno “inguaiato” ma che sia uno “importante”. Lo trova in un imprenditore in rovina che arriva a testimoniare davanti al giudice e a Santenocito che quest’ultimo ha trascorso con lui la serata incriminata” sino alle 1.30. Sembra la liberazione, sarà la fine di Santenocito. Il giudice individua il cameriere dell’industriale in rovina che sconfessa l’alibi offerto. Anche qui, sembra l’affermazione della verità pervicacemente cercata, ma sarà solo il prologo all’ingiustizia più grande.

 Bonifazi ha firmato i mandati di cattura e si trova in una città deserta, il cui unico interesse è la partita di calcio tra l’Italia e l’Inghilterra. Inizia, quasi per inerzia, la lettura dei diari di Silvana; vi è rappresentata una storia diversa da quella immaginata, distante dalla propria ricostruzione e paradossalmente in linea con quella del “mentitore” Santenocito. Si accorge che la ragazza viveva una crisi depressiva che l’ha condotta ad autosomministrarsi volontariamente il farmaco che ne ha determinato la morte, svelando il contesto drammatico vissuto dalla giovane: il sostegno economico ai genitori alimentato dalla sua attività di escort, Sirio, il vero amore che non le risponde più, Santenocito che le chiede di partecipare a “pranzi di affari” ma non nella settimana della sua morte. La ragazza chiarisce di aver “scelto” di fare la prostituta, come in effetti ha sostenuto Santenocito, non volendo ma anche non potendo accettare lavori più umili per sostenere le ormai alte aspettative dei genitori, consapevoli della fonte dei guadagni; è sola e stanca, vuole solo dormire. Mentre Bonifazi vaga nella città che comincia a riempirsi di esultanze scomposte, rivede l’accusa mossagli da Santenocito, quella di essere prevenuto nei suoi confronti; il nemico della società, anche sotto questo profilo, ha finito per cogliere nel segno; Bonifazi stringe in mano il diario rosso, mentre si susseguono scomposti festeggiamenti per la vittoria della squadra italiana di calcio, sfilano i personaggi più variegati (preti, reazionari, militari) sino alla vandalizzazione di un’autovettura targata GB, che prende fuoco.

 Di fronte a comportamenti di nuovi mostri, che ne evocano di vecchi, nei quali riconosce sempre le sembianze dei Santenocito, quasi a compensarlo dei crimini per i quali l’imprenditore è sempre rimasto impunito e a sanzionarlo della mancanza di etica sociale che ha concorso a generare con i suoi comportamenti, decide di punirlo, senza appello e senza più controllo, per un crimine mai commesso da alcuno. Nelle fiamme dell’autovettura inglese getta il diario di Silvana, il documento che avrebbe scagionato l’inquisito.

 Il film di Risi non aspira all’apologo sociale, né a rappresentare l’atto di accusa del sistema, solo a prenderne atto, descrivendone la pervasività. La tesi di fondo è che l’abuso e la sopraffazione non costituiscono modi di agire esclusivi delle classi che detengono il potere politico ed economico, ma, in ultimo, possibile condizione generalizzata dei detentori di ogni potere, siano anche gli interpreti di quello giudiziario. Anche questi ultimi possono giungere a legittimare la trasgressione delle regole e delle forme in nome di una giustizia sostanziale dai confini indefiniti e senza reale controllo. L’abuso, in tal senso, diventa la condizione finale del protagonista del film, Mariano Bonifazi, il giudice che per quasi tutta la pellicola incarna l’ideale di magistrato integerrimo e giusto; l’inquirente disilluso che, dopo aver indagato senza sconti per accertare la responsabilità dell’industriale spregiudicato lascia che sia condannato un innocente per un delitto che nessuno ha commesso. La tragicità di un uomo che ha cercato alibi non confermati neppure dal padre e, da ultimo, ne ha costruito uno falso, è sovrastata dall’ancor più angosciosa iniziativa giustizialista del magistrato istruttore, che opta, senza emozione, per l’eversiva distruzione delle prove dell’innocenza dell’inquisito rispetto ad un non reato.

 In nome del popolo italiano intercetta anche l’abbrivio di una nuova relazione tra magistratura ed istanze della società. I giudici in quegli anni cominciano ad avventurano in un terreno nuovo, esprimendosi in termini più critici rispetto a leggi che, come dice Bonifazi, agevolando ogni appetito dei detentori del potere economico, ne tollerano scempi ambientali e urbanistici, oltre che ogni genere di condotta evasiva e di corruttela. Un atteggiamento che può essere scivolare in espressione ideologica, senza un autogoverno rigoroso: icastica la scena in cui Santenocito rivolgendosi a Bonifazi l’accusa di essere prevenuto, di sentirsi odiato a livello ideologico dal suo inquisitore e conclude urlando la celebre frase “lei non è un buon giudice”.

 Nel film questa tensione devia dal piano dell’interpretazione delle norme o della ricerca tenace di conferme a ipotesi di colpevolezza sostenute da convinzione; si trasforma in una decisione gravemente manipolatoria sulle prove, distruggendo quella che scagiona l’indagato e valorizzando la portata indiziante di un alibi realmente falso.

 Un abuso che nella soluzione finale preferita dal giudice istruttore Bonifazi sembra accompagnata da una scelta narcisistica: il rifiuto della messa in discussione della bontà sostanziale del proprio agire contro un uomo realmente dimostratosi “vile ed arrogante” e che, per mille altre ragioni, avrebbe già “meritato” di essere condannato. Così, nella prospettiva di un inquirente “eversivo”, al pericolo di dover ammettere di aver cercato l’affermazione ingiusta di responsabilità per un crimine effettivamente inesistente può risultare preferibile l’affermazione della colpevolezza del sospettato per colpe esterne e diverse rispetto ai fatti oggetto dell’indagine.

 E’ la negazione della giustizia, in breve, che si realizza quando una preconcetta adesione ad una ricostruzione ideologica della responsabilità degli autori ritenuto socialmente pericolosi, sopravanza la considerazione dei loro concreti e reali comportamenti.

 Può offrirsi una possibile risposta all’interrogativo iniziale: rispetto all’imprenditore vissuto tra prepotenze e arroganze, lo stesso che alla fine del film urla di essere il nemico della società e giura vendetta, enormemente più sovversivo si rivela il giudice, il tutore della legalità, che, in un silenzio stordente, distrugge deliberatamente la prova dell’innocenza dell’inquisito e sostituisce la verità sulle colpe sociali a quella sulle condotte.