A quindici anni dalla «rivoluzione copernicana» incarnata dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, è diffusa l’impressione che, trascorso il primo periodo di «sperimentazione», il nuovo sistema di responsabilità da reato degli enti non goda ancora di un effettivo «assestamento», specialmente sul piano applicativo. La normativa ha infatti subìto molteplici interpolazioni indirizzate soprattutto ad estenderne il perimetro di azione, sino a risultarne stravolta l’originaria impostazione a vocazione preventiva di un ristretto novero di ipotesi dolose. Ne sono derivate incertezze teorico-pratiche, tali da corroborare l’idea di una disciplina disomogenea e complessa da attuare. Anche il mondo imprenditoriale ha assunto atteggiamenti variegati nei confronti della corporate crime liability, ove all’adozione, nei grandi gruppi industriali e creditizi, di modelli organizzativi e gestionali suf cientemente compiuti, si contrappone un certo scetticismo da parte della piccola-media impresa.
Emerge quindi una convergenza di istanze verso una rimeditazione della materia, siccome dimostrano recenti iniziative quali l’istituzione, in seno al Ministero della Giustizia e al Ministero dell’Economia e delle Finanze, di una commissione di studio per la modi ca del «decreto 231», e la costituzione, tra le Università degli Studi di Padova e di Milano, dell’«Osservatorio 231», orientato alla rilevazione e all’analisi critica della prassi giudiziaria.