Il problema dell’eccesso di criminalizzazione è risalente, ma soprattutto negli ultimi anni è tornato al centro dell’attenzione della dottrina angloamericana e continentale. Oggi l’idea di un diritto penale minimo, liberale e garantista è messa seriamente a rischio dalla overcriminalization. L’autore analizza questo fenomeno e le sue cause, e distingue fra overcriminalization legislativa (o in the books) e giurisprudenziale (o in action). Procede esaminando le principali teorie proposte dalla dottrina, in Italia e all’estero, relative alla giustificazione e al contenimento della criminalizzazione legislativa. Propone poi alcune strategie volte a dare attuazione pratica a dette teorie. Quanto alla criminalizzazione giurisprudenziale, anche su questo versante l’autore analizza teorie e propone strategie al fine di ridurre la creatività dei giudici (specie in malam partem), e di rendere più prevedibili le interpretazioni. L’autore apre e conclude il volume prendendo spunto dall’espressione atecnica, ma diffusa fra i “laici”, di “reato penale” (di cui al provocatorio titolo del libro), da cui deriva l’idea che la gente abbia una chiara consapevolezza della nozione di reato, e dello stigma sociale che esso porta con sé. Ripropone dunque una distinzione qualitativa fra reati e illeciti amministrativi basata sullo stigma tipico del “penale”, che dovrebbe trovare conferma nelle “norme di cultura”; e, nella prospettiva di un “diritto penale minimo”, suggerisce di depenalizzare tutte le contravvenzioni ed anche i delitti meno gravi, nell’ambito di una nozione di reato limitata ai fatti più esecrabili e intollerabili per la società, anche al fine di dare maggiore efficienza e credibilità al sistema. E sottolinea che, nel dubbio se criminalizzare o meno un certo comportamento, il legislatore se ne dovrebbe astenere, in applicazione del principio, spesso trascurato dalla stessa dottrina, dell’in dubio pro libertate.