Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta
9. Il valore della dignità
9.1. Nella letteratura dedicata alla tutela penale dei beni della persona ricorre, con crescente frequenza, l’evocazione di un valore, largamente condiviso, ma anche controverso, che taglia trasversalmente l’intera materia. Il riferimento è al concetto di dignità, la cui importanza culturale sembra destinata a caratterizzare un’intera epoca e a trasformare in profondità il costituzionalismo europeo@. Si tratta di un termine che, sul versante del nostro diritto penale, pur comparendo da ultimo nel testo del delitto di tortura e in nessun altro degli enunciati normativi presenti nel Titolo XII c.p., interessa nondimeno un qual certo numero di importanti fattispecie incriminatrici, anche extra codicem.
A differenza della reputazione e dell’immagine della persona, la dignità è prerogativa esclusiva dell’umano, di cui è sinonimo. Mentre le prime rilevano in concreto, quali attribuzioni dei singoli, la seconda è una categoria generale, che, secondo l’insegnamento kantiano@, è comune a tutti allo stesso modo e prescinde dalla moltitudine delle sue incarnazioni. E ancora: la disponibilità dei beni della persona registra una netta tendenza all’espansione; per contro, la preponderante dimensione universalistica della dignità non è negoziabile, e in quanto tale è di per sé tendenzialmente incompatibile con la procedibilità a querela, che oggi caratterizza non pochi reati offensivi dei beni della persona.
Sia chiaro: nonostante i rischi affatto fondati di una sua regressione valoriale nello scenario internazionale@, non si discute adesso della dignità dell’autore del reato, come beneficiario di uno statuto morale irriducibile, che ne impedisce la strumentalizzazione utilitaristica e la degradazione a nemico della comunità, per quanto obbrobriosa possa essere la sua responsabilità. La dignità che interessa in questa sede non riguarda, cioè, il garantismo quale sinonimo in definitiva di diritto penale@, né la fase del trattamento esecutivo, che deve fare salva la persona e finanche la personalità del colpevole.
Qui l’ambito di interesse è più circoscritto perché attiene al piano della tutela, venendo in rilievo la dignità in due direzioni opposte: come limite oppure come fattore giustificativo dell’intervento punitivo.
9.2. Iniziando dalla dignità come limite della tutela penale, il suo principale uso argomentativo è avvenuto nel campo del biodiritto per contrastare pratiche di accanimento terapeutico nella fase del fine-vita.
Più che mai in questa costellazione di situazioni, la dignità è strettamente connessa all’identità della persona, ossia al diritto di ciascuno di scegliere la propria accezione di umanità. L’autodeterminazione non ha ad oggetto la scelta tra la vita e la morte, ma riguarda la gestione dell’inevitabile sotto il profilo del “come”, più che del “quando”.
Il diritto di rifiutare le cure è dunque il punto di partenza del diritto alla dignità del morente, non anche il punto di arrivo: il dovere di assistenza del sanitario non cessa nei confronti del paziente che non può esprimere e non ha espresso scelte di fine-vita, assumendo quale oggetto precipuo le terapie utili al contenimento della sofferenza, compresa la c.d. sedazione terminale, che pur nondimeno segna la fine della vita biografica@.
In ogni caso affermare la dignità del morire – come scelta e come riconoscimento di valore – non significa necessariamente prendere partito per la disponibilità della vita, né tanto meno schierarsi a favore dell’eutanasia@, ma riconoscere un fondamentale spazio culturale all’ars moriendi, quale capitolo finale dell’ars vivendi. Le scelte di fine-vita non sono assimilabili agli atti dispositivi della persona, che opera in uno scenario di vita piena.
Questo vale anche per il suicidio medicalmente assistito, espressione finanche equivoca, perché chi compie questa tragica scelta non rifiuta la vita, ma l’insostenibilità della sofferenza, non vuole abbandonare il consorzio degli esistenti, ma il proprio corpo, all’inevitabile prezzo della vita. Alla gestione medicalmente assistita della propria fine mancano tanto l’elemento oggettivo, quanto quello soggettivo del suicidio@, tant’è che con un recente intervento (sent. 242/2019) la Consulta ha aperto un significativo varco di liceità della condotta di aiuto e agevolazione@.
9.3. Un diverso discorso va fatto per la dignità come criterio di legittimazione della tutela. A questo proposito non può trascurarsi che l’essenza morale e il respiro ideale del concetto di dignità rischiano di accentuare il vittimo-centrismo dell’odierno diritto penale, favorendo scolorimenti dell’offesa. Per non tacere, poi, la non univocità etico-culturale della dignità, paradossalmente esposta, per questa ragione, al rischio di relativismo ideologico. Tutto ciò è sufficiente a mettere in guardia contro i rischi di un uso disinvolto e poco sorvegliato della nozione di dignità. La sua invocazione deve saper conciliare le molteplici filigrane del concetto con il carattere pluralistico della nostra società e con il modo di operare del diritto penale, che è quello di ritagliare tipologie di offese. Non si trascuri, infatti, che la frammentarietà della tutela penale, ossia la sua fisiologica selettività, mal si concilia con lo zoccolo duro della “dignità umana” costituita dall’uguaglianza di trattamento. Una tutela della dignità discriminatoria sarebbe essa stessa una lesione della (pari) dignità degli uomini, peraltro non agevolmente correggibile, stanti i noti limiti del sindacato di costituzionalità in malam partem delle discipline penali di favore@.
Tanto considerato, lo sviluppo, seppure sommario, della riflessione impone di distinguere adesso a seconda che la dignità funzioni come chiave interpretativa di altri e già acquisiti beni della persona ovvero costituisca una autonoma ed esclusiva oggettività giuridica.
9.4. Il primo scenario non pone particolari problemi, in quanto l’offesa alla dignità segna in definitiva l’approfondimento della lesione di altri beni giuridici.
Si pensi alla lesione della reputazione, che nella sua massima intensità ben può coinvolgere la dignità, come nel caso dell’offesa rivolta al portatore di handicap in ragione del suo handicap, ad un tempo lesiva dell’umanità in quanto tale.
Lo stesso deve dirsi della violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.), la cui maggiore gravità è ravvisata comunemente proprio nella degradazione, particolarmente intensa, della vittima@.
L’elenco potrebbe continuare con il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù (art. 600 c.p.), tratta di persone (art. 601 c.p.), e con quello, già considerato, di tortura, che può consistere in pratiche umilianti.
9.5. Inutile dire che la seconda prospettiva è quella più complessa e problematica, essendo la dignità un concetto di portata universale, ma dalle radici pur sempre storicizzate.
Per evitare di approdare a un indifferenziato “crimine di lesa dignità”, occorre individuare specifiche sfaccettature del valore della dignità meritevoli di tutela e culturalmente non divisive, come accade, per esempio, con la disciplina penale della discriminazione razziale (art. 1, d.l. n. 122 del 1993, conv. nella l. n. 205 del 1993), che è una diretta attuazione del principio costituzionale di uguaglianza ex art. 3, comma 1, Cost. Parimenti deve dirsi del delitto, di nuovo conio legislativo, di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa, di cui all’art. 604-bis c.p., che, al secondo comma, tipizza l’istigazione ad atti di violenza.
In molti altri casi, invece, l’elevazione della dignità ad autonomo bene giuridico può sostanziarsi nella trasfigurazione di legittime, ma inoffensive visioni ideologiche.
Si pensi alla repressione penale del negazionismo come mera contestazione della verità storica. Diversa e condivisibile è pertanto la scelta effettuata dalla l. n. 115 del 2016, che incrimina il negazionismo se e in quanto modalità di propaganda razzista, istigazione e incitamento ad atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. La scelta legislativa pone il negazionismo sullo stesso piano della discriminazione razziale.
E ancora: un’accezione della dignità del minore che, con la sua essenza metafisica e sentimentale@, travolge il pilastro dell’offesa, è quella sottesa alla repressione della pedopornografia virtuale (art. 600-quater1 c.p.), che nondimeno resiste nella nostra legislazione.
E lo stesso va detto della dignità della donna, quale bene tutelato contro le condotte di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, fattispecie di dubbia legittimità@, non soltanto perché incriminano un concorso nell’altrui fatto lecito, ma per il significato “neutro” dei comportamenti che la giurisprudenza riconduce all’ambito operativo dell’art. 3 n. 8 della l. n. 75 del 1958@. La sentenza 141/2019 della Consulta ha sprecato un’occasione preziosa per espungere dal nostro ordinamento gli ingloriosi retaggi del passato, di cui si è appena detto@. Si sono chiusi gli occhi sulla realtà. Nel variegato mondo della prostituzione non esistono soltanto persone schiavizzate, meritevoli di tutela, ma anche libere professioniste della sessualità, che, come altri, si occupano, dietro compenso, del corpo altrui. La Corte si fa scudo dello sfuggente concetto di dignità umana, meritevole di miglior causa, per riproporre, a cinquant’anni dalla rivoluzione sessuale, una visione moralistica e sessuofobica della libertà di disporre del proprio corpo. La sentenza finisce così per ravvisare la piena compatibilità delle condotte satellitari di cui si è detto con il principio di offensività, che viene a perdere tanto la sua funzione critica delle scelte politico-criminali, quanto la sua matrice laica. È proprio il caso di dire: peccato.
9.6. L’impiego penalistico della nozione di dignità ha tagliato di recente un ulteriore traguardo, il più problematico, venendo a perdere la sua tradizionale funzione di predicato di una persona hic et nunc, per assumere le sembianze di un bene giuridico superindividuale marcatamente ideologico, espressivo della concezione antropologica della persona, quale si è storicamente sviluppata fino a oggi@, ossia dell’umano ad oggi conosciuto.
Sotto questo profilo, in nome della dignità, si ambisce a contrastare penalmente alcuni possibili sviluppi della genetica, precludendole, in una proiezione forse ancora fantascientifica, di produrre l’umano che non si vorrebbe che fosse: il semiuomo, l’uomo artificiale, l’uomo ibernato, l’uomo-pianta o l’uomo sempreverde utile per prelievi d’organo@.
E nella stessa prospettiva la tutela della dignità, sub specie di identità e irripetibilità genetica, viene invocata, seppure problematicamente@, per sanzionare penalmente la clonazione umana, secondo il modello dell’art. 12 l. n. 40 del 2004.
Gli scenari che si dischiudono sono molteplici. Da un lato, e sul piano effettuale, è dubbio che il Nomos penalistico possa imbrigliare con successo la forza travolgente della Téchne@. Dall’altro lato, e sotto il profilo giustificativo, nella sua veste di bene giuridico la dignità mostra una tendenza all’idealizzazione della tutela, caratteristica di molti altri beni giuridici superindividuali, che affollano codici e manuali.
La loro funzione dovrebbe essere quella di trait d’union razionale tra il diritto penale, quale fenomeno normativo, e la società, come realtà storica. Il diritto penale, che non crea ma trova gli oggetti della sua tutela, può solo avvantaggiarsi di un concetto di dignità umana ricco di reali contenuti legittimanti, che gli offra una valida ragione per intervenire con la forza (rectius: violenza) che è sua propria. Nel dubbio, è meglio che il diritto penale si ritragga, poco o tanto che sia il consenso sociale, onde evitare di strumentalizzare la dignità o di esserne strumentalizzato.
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