testi ed ipertesti

Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta

7. L’evoluzione della fattispecie di maltrattamenti

 

 7.1. Rimanendo nell’ambito dei reati offensivi della persona umana, e con riguardo segnatamente alle fattispecie incriminatrici che offrono una tutela anticipata, si è già detto delle slabbrature ermeneutiche che registrano gli atti persecutori sotto il profilo della condotta e, si può aggiungere ora, anche sotto il profilo dell’evento, nella misura in cui l’orientamento prevalente sottoscrive una concezione non nosografica del “grave stato di ansia”@.

 7.2. Qualche rilievo a parte meritano invece le figure di maltrattamento: il riferimento è all’omonima fattispecie generale prevista dall’art. 572 c.p. e alla recente ipotesi speciale del delitto di tortura, introdotto dalla l. n. 110 del 2017 all’art. 613-bis c.p. Si tratta di due reati abituali (il secondo, per il vero, inopinatamente), che pongono un problema interpretativo comune, consistente nella messa a fuoco della soglia minima di offensività sufficiente alla integrazione del tipo delittuoso.

 Che l’art. 572 c.p. preveda una fattispecie offensiva dell’integrità fisica e morale della persona è da tempo riconosciuto@, anche a fronte della sua impropria collocazione codicistica tra i delitti contro la famiglia, la quale, come si è detto, è sopravvissuta alla logica della riserva di codice e, ancora prima, alla legge di riforma n. 172 del 2012, attuativa della Convenzione di Lanzarote del 15 ottobre 2007.

 Se si prescinde dall’immancabile incremento delle cornici sanzionatorie rispetto a quelle previste dal truce codice Rocco, la principale innovazione introdotta consiste nell’inclusione dei conviventi tra i soggetti passivi (con contestuale rettificazione dell’originaria rubrica dell’art. 572 c.p. che parlava di maltrattamenti “in famiglia”).

 Si è trattato dell’ulteriore dilatazione apportata a una fattispecie già ampiamente stiracchiata dall’elaborazione giurisprudenziale.

 7.3. Basti pensare alla svalutazione della funzione selettiva che dovrebbe svolgere la natura abituale del reato sul versante dell’offensività. È opinione pacifica che, per la sussistenza del fatto, bastino due condotte, non solo di per sé atipiche ai sensi di altre fattispecie incriminatrici, ma anche tra loro distanziate nel tempo@. Non esclude il reato nemmeno la reciprocità delle offese tra il soggetto attivo e quello passivo, anche quando la reazione della vittima non si mantenga nell’area della legittima difesa, ma partecipi attivamente allo scambio delle offese, alimentando consuetudini improntate al sadomasochismo reciproco@. E ancora: già prima della recente riforma la giurisprudenza ammetteva i maltrattamenti del datore di lavoro nell’ambiente di lavoro, fino a ravvisare il delitto in questione nelle ipotesi di mobbing, seppure limitatamente alle piccole realtà imprenditoriali, assimilabili – si diceva – alle relazioni che si instaurano tra familiari@. Secondo la giurisprudenza successiva alla riforma, fondata su un’interpretazione formalistica della rubrica legislativa, i maltrattamenti possono prescindere dalla convivenza e sussistere tra coniugi separati, purché ancora legati da un vincolo di familiarità@, con invasione del campo applicativo proprio degli atti persecutori, di cui all’art. 612-bis c.p. Non senza incoerenza, a fronte di una concezione più numerica che ponderale dell’abitualità, la giurisprudenza non manca di preferire la tesi secondo cui il reato sarebbe un illecito unitario@, allo scopo di far decorrere la prescrizione dall’ultima condotta tipica, con il risultato di consentire la punizione di quelle precedenti, ancorché molto lontane nel tempo. Da ultimo, non si trascuri che, sul piano probatorio, la giurisprudenza considera sufficiente per l’affermazione della responsabilità dell’imputato la dichiarazione accusatoria della vittima, purché coerente e credibile, a nulla valendo che, intanto, si sia eventualmente costituita parte civile@.

 In breve: la fattispecie di maltrattamenti si presta a esemplificare, nel suo microcosmo applicativo, i guasti dell’odierno macrocosmo penalistico, assumendo valore metaforico. Si tratta, infatti, di un reato dalla tipicità umbratile nella quale prevenzione generale e vittimocentrismo spadroneggiano senza contrappesi, non solo garantistici, ma neppure di semplice razionalità contenitiva. In questa prospettiva, infatti, la tutela dell’integrità personale subisce una trasfigurazione, nella misura in cui il suo rafforzamento viene a dipendere, più che dalle modalità della condotta, dalle relazioni e consuetudini che intercorrono tra il soggetto attivo e quello passivo.

 7.4. Per recuperare la ragion d’essere di queste figura di reato, pare utile volgere lo sguardo al suo passato. Presente già nelle legislazioni preunitarie, come autonoma ipotesi di reato a danno del coniuge, la fattispecie di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli era collocata dal codice Zanardelli tra i delitti contro la persona ed era perseguibile a querela se realizzata a danno del coniuge (art. 391).

 L’innovazione principale del codice Rocco è consistita nel suo assoggettamento alla procedibilità d’ufficio, non solo perché coerente con il carattere superindividuale della famiglia, quale bene giuridico di categoria di tutti i delitti collocati nel Titolo XI c.p., ma soprattutto per assicurare, anche in mancanza di una denuncia della vittima, la tutela contro i singoli episodi di maltrattamento di per sé costituenti reati perseguibili a querela.

 Il codice Rocco aveva idee chiare. Da un lato, teneva conto che la funzione deflattiva della procedibilità a querela (il cui nucleo principale era originariamente limitato ai reati perpetrati in seno alla famiglia ex art. 649, comma 2, c.p.) presuppone una vittima “forte”, ossia non intimidibile post factum dal presunto colpevole, pena la creazione di zone di ingiustificabile impunità. Dall’altro lato, pur considerando la famiglia un valore in sé, in quanto fondamentale istituzione intermedia tra individuo e stato, non ne ignorava né la morfologia all’epoca verticistica, né il carattere potenzialmente chiuso, con gli effetti criminogeni che potevano discenderne a danno dei soggetti più deboli. La potestà maritale associata all’indissolubilità del matrimonio descrivevano una sottofattispecie criminologica di maltrattamenti con autore e vittime entrambi infungibili: il primo non poteva che essere il marito-despota e il padre-padrone, le seconde la moglie e i figli.

 Da qui il significato profondo della procedibilità d’ufficio, intesa a rompere il riserbo della vita familiare che si trasforma in un accerchiamento del familiare soggiogato.

 7.5. Da allora, però, molte cose sono cambiate. L’originaria ratio legis mantiene la sua plausibilità politico-criminale nel caso dei maltrattamenti perpetrati a danno dei minori, trattandosi peraltro di offese a beni indisponibili, ma non anche nella sottofattispecie che vede come vittime soggetti adulti. In quest’ultima ipotesi, sull’indisponibilità del bene giuridico è lecito avanzare riserve, almeno fintanto che i maltrattamenti consistano in condotte (come, per esempio, ingiurie, percosse ecc.), le quali singolarmente considerate sono scriminabili ex art. 50 c.p. Si pensi ai ménage vicendevolmente violenti tra soggetti emancipati culturalmente ed economicamente, e alla sporadica comparsa della denuncia penale al momento della separazione legale e della trattativa sulle sue condizioni economiche.

 In breve: l’eterogeneità della casistica astrattamente riconducibile oggi nell’ambito dei maltrattamenti, quale figura di reato, non certo superflua, ma divenuta polimorfa, richiede all’interprete un impegno e un equilibrio del tutto particolari, rendendosi necessaria la previa individuazione del corretto “tipo criminologico” quale criterio ermeneutico del “tipo legale”, onde evitare identificazioni aprioristiche e strumentali del soggetto passivo.

 Il compito non è certo semplice. Va detto tuttavia che nella disorientante elaborazione giurisprudenziale, intrisa di formalismo esegetico di marca repressiva, non manca qualche spunto felice, che non va lasciato cadere. Il riferimento è alla centralità che assume lo stato di soggezione, quale presupposto tacito dei maltrattamenti@, cui va aggiunta la loro ambientazione in un contesto psicologicamente e fisicamente chiuso. Più è costrittiva la condizione di subalternità all’agente, più è plausibile la lettura dei maltrattamenti come reato abituale anche interamente proprio, ossia composto da condotte di sola violenza “bianca”, tutte di per sé atipiche.

 7.6. Questo approdo ermeneutico dovrebbe valere, a maggior ragione, per il delitto di tortura@, caratterizzato dal duplice requisito specializzante della condotta (consistente in violenze, minacce gravi e crudeltà) e degli eventi tipizzati (acute sofferenze fisiche o verificabile trauma psichico), ma soprattutto da uno stato indefettibile di soggezione del soggetto passivo che irradia e giustifica il rafforzamento della tutela.

 

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