Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta
3. Condotte riparatorie e reati procedibili a querela
di Fausto Giunta
3.1. L’ipertrofia della parte speciale e il conseguente affaticamento della macchina processuale sono tra i principali mali di cui soffre la nostra giustizia penale. Ciò spiega il carattere prioritario che hanno assunto le politiche di deflazione, tra le quali svolge un ruolo particolare l’incremento dei reati che derogano alla procedibilità ex officio. Si può dire che, mentre tende a ridursi l’impiego della querela come strumento tutela della vittima del reato dallo strepitus fori, l’obiettivo deflattivo è diventato sempre più la ratio della procedibilità a querela, intesa a conciliare sinergicamente la superfluità della pena in concreto con il contenimento del sovraccarico giudiziario. In questa prospettiva si collocano gli interventi di potenziamento della perseguibilità a querela che si sono susseguiti nel tempo. Si parla al riguardo di querela-selezione. Per rimanere alle riforme più significative, assumono qui rilievo: la l. 24 novembre 1981, n. 689, la l. 25 giugno 1999, n. 205, il d.lgs. n. 61 del 2002, il d.lgs. n. 36 del 2018 e il d.lgs. n. 150 del 2022.
3.2. In ragione dell’effetto deflattivo perseguito, la procedibilità a querela viene comunemente classificata tra le ipotesi di depenalizzazione c.d. di fatto@, senza che ciò ne svaluti quelle peculiarità cui vale la pena accennare sinteticamente.
In primo luogo, a differenza della depenalizzazione de iure, che incide sul piano sostanziale sotto forma di abolitio criminis, la querela, in quanto condizione di procedibilità, interessa il versante processuale.
In secondo luogo, diversa è la portata dell’effetto deflattivo. Nel caso della depenalizzazione, la rinuncia alla pena avviene in astratto, all’esito di una rivalutazione della (mancante) meritevolezza di pena di tutti i fatti tipizzati dalla fattispecie depenalizzata. Con la querela-selezione la depenalizzazione si realizza in concreto, ossia con riguardo al singolo fatto storico rispetto al quale la querela non viene sporta, per (supposto) difetto del bisogno di pena.
In terzo luogo, mentre la depenalizzazione, nell’attuare il principio di offensività, muove da una valutazione unitaria del carente disvalore di tutti i fatti tipici sottratti alla pena, la perseguibilità a querela parte da un diverso presupposto: che i fatti tipici, nell’unitarietà e inscindibilità della figura di reato, possano presentare in concreto, sia oggettivamente, sia nella percezione soggettiva della vittima, disvalori differenti, ora minimi, ora elevati, comunque sufficienti a giustificare il mantenimento della fattispecie incriminatrice. In breve: l’inoffensività del fatto depenalizzato è originaria, trattandosi di una valutazione del legislatore, quale artefice della politica criminale; quella del fatto non perseguito per difetto di querela dipende dall’apprezzamento del soggetto passivo o della persona che, per la sua vicinanza agli interessi offesi, viene ritenuta un’interprete attendibile del bisogno di pena suscitato dal fatto.
In quarto luogo, la depenalizzazione è sovente accompagnata dal mutamento di natura dell’illecito, che viene degradato a violazione amministrativa (c.d. decriminalizzazione): la qual cosa consente di non rinunciare né alla funzione punitiva della sanzione, né alla sua gestione ad opera di una autorità pubblica. Diversamente, per il fatto tipico non perseguito in concreto, si apre la strada di un trattamento differenziato eventuale e pattizio, affidato alla capacità dei privati coinvolti di ricomporre da soli il conflitto. Sotto questo profilo, per sua natura, la querela-selezione è soggetta a remissione; un meccanismo, questo, che funge da ulteriore sprone alla composizione anche tardiva degli interessi in campo. Com’è evidente, la querela-selezione sfrutta dinamiche risarcitorie esterne al processo, gestite dai protagonisti del fatto di reato autonomamente, ossia senza l’aiuto di un mediatore. Si tratta quindi di un fenomeno di mera de-processualizzazione e di eventuale composizione stragiudiziale.
3.3. La querela-selezione non manca nel nostro ordinamento di una embrionale disciplina di parte generale. Il riferimento è all’operatività di due distinti istituti che, intervenuti in tempi diversi e aventi ambiti applicativi differenti, valorizzano la condotta antagonistica susseguente al reato come fattore giustificativo della rinuncia alla pena. Viene qui in rilievo l’estinzione per condotte riparatorie prevista, in via sperimentale, per i reati di competenza del giudice di pace, di cui si è detto, e di recente estesa al circuito giurisdizionale ordinario.
Più precisamente l’art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000 costituisce una disciplina, per un verso generale, perché non esclusiva dei reati perseguibili a querela, per l’altro speciale, in quanto operante solo per i reati devoluti alla cognizione del giudice pacificatore, la cui vocazione repressiva è assai poco spiccata. Come noto, la disposizione citata consente al giudice, sentite le parti e l’eventuale persona offesa, di dichiarare estinto il reato quando l’imputato dimostra di avere proceduto alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato.
Per altro verso, viene in rilievo il recente art. 162-ter c.p., introdotto dalla l. 23 giugno 2017, n. 103, che disciplina l’estinzione del reato per condotta riparatoria in termini speculari rispetto al citato art. 35: la nuova causa estintiva codicistica ha portata generale, seppure limitatamente ai reati perseguibili a querela soggetta a remissione; la qual cosa rende più stretto, sotto il profilo politico-criminale, il nesso tra la querela-selezione, come scelta processuale dell’offeso, e la condotta susseguente dell’imputato, avente ad oggetto, anche qui, la riparazione del danno, mediante restituzioni e risarcimento, e l’eliminazione delle conseguenze dannose.
3.4. Le similitudini tra i due istituti sono evidenti. In entrambi i casi il legislatore, chiamando in causa il giudice nel ruolo di co-gestore del conflitto, ha inteso riportare all’interno del processo penale il momento compositivo e stragiudiziale del conflitto, di cui la querela-selezione di per sé considerata non si occupa. In questo senso l’estinzione per condotte riparatorie, quale istituto di parte generale, funge da completamento funzionale della querela-selezione, quale fenomeno deflattivo di parte speciale.
Un altro carattere che accomuna i due istituti – seppure espressamente affermato solo in quello di più recente introduzione – è il potere del giudice di estinguere il reato d’autorità, per così dire forzando la mano del querelante, ovverosia chiudendo la partita anche contro il suo volere. In tal modo l’estinzione per condotte riparatorie ri-pubblicizza la fase della remissione, temperandone l’originaria natura di diritto potestativo.
Ben più rilevanti, però, sono le differenze tra i due anzidetti istituti estintivi, sulle quali è opportuno sostare brevemente. Il riferimento è, oltre all’ambito di operatività, di cui anche si dirà, ai criteri di esercizio del potere d’intervento del giudice. Solo l’art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000, infatti, prevede dei parametri finalistici di natura penalistica, quali l’idoneità delle attività risarcitorie e riparatorie a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione. L’art. 162-ter c.p. presenta, invece, un’impalcatura più civilistica, come dimostra l’espresso richiamo dell’art. 1208 c.c. in materia di offerta reale: il presupposto dell’estinzione coattiva è solamente la riparazione integrale del danno cagionato da reato.
3.5. Com’è intuitivo, questo snodo funzionale è gravido di conseguenze applicative. Sennonché, decisiva appare la preliminare verifica della premessa. Ci si deve chiedere, cioè, se il potere d’intervento del giudice sia realmente diverso nei due casi, al di là delle indubbie differenze testuali che presentano gli articoli citati. A tale proposito, non può farsi a meno di rilevare che la valutazione richiesta al giudice di pace, oltre ad apparire alquanto complessa, è anche sproporzionata rispetto all’esiguità offensiva della gran parte dei reati affidati alle sue cure. Certo questo rilievo non vale per le ipotesi di lesioni personali devolute alla giurisdizione di pace. Sennonché, nei confronti di queste ultime previsioni di reato, già in sede di prima interpretazione era apparsa di dubbia legittimità l’estinzione forzosa per intervenuta riparazione, se intesa come monetizzazione autoritativa dell’offesa subita; perciò si era ritenuto di escludere l’estinzione coattiva in presenza di gravi offese di natura personale@. Per converso, in relazione a tutti gli altri reati di competenza del giudice di pace i criteri di esercizio della discrezionalità giudiziale elencati nell’art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000 apparivano una litania superflua, risultando poco plausibile che la riparazione di reati scarsamente offensivi, specie se piena, lasci insoddisfatte esigenze di riprovazione e prevenzione che solo la pena (peraltro lieve, perché si tratterebbe della permanenza domiciliare nel fine-settimana) potrebbe placare.
Questi rilievi sembrano potersi riferire, mutatis mutandis, anche all’operatività dell’art. 162-ter c.p. È ben difficile che un’offerta risarcitoria, non accettata dalla vittima, ma impostale dal giudice, risulti idonea a cauterizzare l’offesa di beni fondamentali della persona, come l’integrità fisica. L’anzidetta soluzione appare praticabile, invece, per le aggressioni che riguardano interessi privati o beni personali disponibili. Qui tanto l’intervento autoritativo del giudice, quanto il suo epilogo estintivo, vengono ad assumere una funzione di garanzia: proteggere il colpevole dalla sua vittima, quando costei è animata unicamente da inammissibili intenti persecutori@.
Stando così le cose, le differenze operative tra i due istituti finiscono per assottigliarsi, anche sotto il profilo del retroterra cognitivo della decisione giudiziale, la quale, intervenendo in una fase processuale anticipata, non potrà fondarsi sul pieno accertamento del fatto di reato. Bisogna concedere che, di regola, il giudice valuterà la congruità delle condotte riparatorie in relazione all’entità del danno quale risulta dalla narrazione dei fatti ad opera del querelante, prendendola per buona in quanto implicitamente accettata dall’accusato che preferisce evitare l’accertamento processuale. È anche possibile, però, che il presunto colpevole, pur senza negare il fatto, contesti l’entità delle conseguenze lesive. In tal caso, in presenza di allegazioni difensive, il giudicante dovrà comunque prenderne atto.
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