Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta
2. La riscoperta penalistica del risarcimento del danno
di Gianfranco Martiello
2.1. Sino a non molto tempo fa, i luoghi normativi di tangenza tra il risarcimento del danno e la pena criminale risultavano del tutto limitati, considerata anche la diversità delle funzioni che ad essi pacificamente si attribuiva: al primo, quella di “riparare” la violazione di una altrui situazione giuridica di vantaggio, cercando di ripristinare lo stato di fatto antecedente o di ristorare il danneggiato con il tandundem pecuniario; alla seconda, quella di “punire” il reo per aver commesso un fatto particolarmente antisociale, ossia il reato.
Ed in effetti, nell’originario testo del codice Rocco le aree di intersezione tra pena e risarcimento del danno apparivano circoscritte.
Così, nella «Parte generale» era ed è previsto, ad esempio, che la commissione di un reato obblighi chi l’ha commesso al risarcimento dei conseguenti danni civili, inclusi quelli di natura non patrimoniale (artt. 185 c.p. e 2059 c.c.); l’art. 188 c.p., da parte propria, impone al condannato l’obbligazione di rifondere lo Stato delle spese da quest’ultimo sostenute per il mantenimento negli stabilimenti di pena; con diversi fini, l’art. 62, n. 6, c.p. riconosce un’attenuazione della pena a colui che, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mentre è solo più di recente che il riformato ultimo comma dell’art. 163 c.p. ha incluso un tale ristoro tra le condizioni imposte al reo per l’accesso al beneficio della sospensione condizionale della pena c.d. «breve».
Sul versante della «Parte speciale» del codice penale, a venire in rilievo è segnatamente l’art. 641, comma 2, che già in origine prevedeva che il delitto di «Insolvenza fraudolenta» potesse (eccezionalmente) essere estinto mediante l’adempimento, seppure tardivo, dell’obbligazione non onorata, sebbene – si noti – sugli impliciti presupposti: a) della natura strettamente individuale del bene giuridico protetto, ossia il patrimonio, il che fa sì che la portata offensiva del reato si scarichi quasi esclusivamente sul titolare dello stesso; b) della concentrazione della carica offensiva del reato nell’evento lesivo del bene giuridico (disvalore d’evento), che assorbirebbe in sé anche quella insita nella condotta; c) della natura temporanea e non irreparabile dell’offesa al bene giuridico, che rende agevole al legislatore incentivare condotte di ristabilimento dello status quo ante; d) della omogeneità degli interessi offesi dall’incriminazione rispetto a quelli ristorati dalla contro-condotta post fattuale, la quale, difatti, risulta del tutto omogenea al piano dell’offesa prodotta dal reato.
2.2. Proprio l’esistenza di tale precedente sembra avere incoraggiato il legislatore al progressivo inserimento, all’interno del sistema penale, di sempre più numerose previsioni normative che consentono al reo di estinguere il reato commesso risarcendo economicamente il danno da quest’ultimo cagionato. In apparenza, quindi, parrebbe che nihil sub sole novum, ma, a parte la dimensione quantitativa che tale fenomeno ha ormai raggiunto, ben lontana dalla sua eccezionalità originaria, è il concreto atteggiarsi delle più recenti clausole estintive a segnare il solco più profondo rispetto all’archetipo costruito dai codificatori del 1930.
In effetti, l’impressione è che, più che prestare attenzione alla potenziale congruità del risarcimento rispetto alla natura del bene offeso ed al disvalore complessivo espresso dal reato estinguendo, il moderno legislatore sia stato più che altro ansioso di alleggerire quanto più possibile il carico di lavoro degli uffici giudiziari, e ciò al fine ultimo di ridurre la proverbiale lentezza con la quale si muove, ormai cronicamente, la nostra giustizia penale. In questa prospettiva, forse più che il mantenimento di ragionevoli equilibri della risposata sanzionatoria rispetto a fatti che pur sempre costituiscono «reato», se non addirittura «delitto», può avere prevalso il bisogno di “arruolare” – in modo quantitativamente significativo – anche siffatte clausole nell’ampia rosa degli strumenti lato sensu deflattivi che il legislatore ha messo ormai in campo, tra i quali ad esempio si annoverano, sul versante del diritto sostanziale, la depenalizzazione, l’estensione della procedibilità a querela, la degradazione di figure di reato ad illeciti punitivi civili, ecc.
2.3. Se ciò è vero in termini generali, occorre tuttavia prendere atto di come le clausole di tale fattura ormai diffuse nell’ordinamento penale non risultino forgiate su di un unico modello, ma, al contrario, differiscano tra loro, a tacer d’altro, sia per il campo applicativo ad esse di volta in volta riservato, sia – e particolarmente – per il contenuto della prestazione estintiva richiesta al reo e per i poteri conformativi che rispetto ad essa vengono riconosciuti al giudice.
Sotto il primo profilo, è allora possibile distinguere clausole estintive che si riferiscono a singoli reati, come ad esempio quelle degli artt. 341-bis, u.c., c.p. e 2627, u.c., c.c., da clausole estintive applicabili, invece, a gruppi circoscritti di reati, come quelle recate dagli artt. 35, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 e 162-ter c.p.
Non vi è dubbio, tuttavia, che di maggiore interesse risulta la partizione che può essere operata, come detto, assumendo a criterio discriminatorio la prestazione richiesta al reo ed i poteri di controllo riconosciuti al giudice sul procedimento estintivo. E ciò non fosse altro perché tali elementi fanno meglio comprendere tanto il diverso punto di equilibrio tra esigenze deflattive ed esigenze retributive che il legislatore ha di volta in volta inteso raggiungere, quanto la reale attitudine surrogatoria della prestazione richiesta al reo rispetto alla pena alla quale essa, di fatto, subentra.
In quest’ultima prospettiva, assumono rilievo, in primo luogo, quelle clausole estintive che richiedono l’avvenuto risarcimento – ora in forma generica, ora in forma specifica – del (mero) danno civile derivante dal fatto di reato, come ad esempio risulta dai richiamati artt. 341-bis, u.c., 641, u.c., c.p. e 2627, u.c., c.c. Tuttavia, nel collegare l’estinzione del reato alla riparazione o al risarcimento di quel medesimo danno al cui ristoro il reo sarebbe stato comunque obbligato dall’art. 185 c.p., la gran parte di tali clausole non sembra in realtà postulare una effettiva “sostituzione” della pena con la sanzione risarcitoria, sebbene appaia innegabile come esse assecondino – in modo senz’altro politicamente ripagante – quel processo di valorizzazione delle istanze della vittima del reato che da tempo è in atto. A ben vedere, difatti, in tali ipotesi pare che, più semplicemente, e per motivi di opportunità deflattiva, il legislatore abbia ritenuto il solo ristoro del danno patito dal danneggiato una risposta del tutto adeguata a chiudere la vicenda criminosa. Più che essere propriamente surrogata dalla sanzione civile, allora, la pena sembra qui ritrarsi dal proprio consueto campo operativo, e la sua applicazione pare in sostanza oggetto di una sorta di “rinuncia” dell’ordinamento. Sotto altro versante, può rilevarsi come tale piena corrispondenza (giuridica) tra offesa penalmente rilevante e danno economicamente apprezzabile, e risarcibile, renda i presupposti applicativi di tali clausole sostanzialmente “incontrollati”, poiché, come si evince dalla stringatezza sul punto delle disposizioni estintive richiamate, al giudice non sembra essere stato riconosciuto alcun potere valutativo, ed a maggior ragione conformativo. Non è quindi peregrino ritenere che sarà la soddisfazione della parte danneggiata a giocare un ruolo fondamentale nella definizione della prestazione estintiva, come già in effetti emerge da alcuni arresti giurisprudenziali in materia di oltraggio a pubblico ufficiale.
In secondo luogo, si impongono all’attenzione quelle previsioni estintive nelle quali il legislatore ha espressamente richiesto al risarcimento o alla riparazione del danno di estendersi ad un quid pluris, e segnatamente all’appagamento di esigenze ulteriori rispetto a quelle manifestate dal civilmente danneggiato dal reato, subordinando al soddisfacimento anche di esse la produzione dell’effetto estintivo. A ben vedere, è in tali ipotesi che, con maggiore fondatezza, si può ragionevolmente affermare che la sanzione risarcitoria propriamente si surroga a quella penale, poiché ritenuta satisfattiva di quelle medesime esigenze alle quali è la pena, nella sua polifunzionalità, ad essere di norma chiamata a fornire adeguata risposta.
In tale ottica, vengono in specifico rilievo i già richiamati artt. 35, d.lgs. n. 274 del 2000, e 162-ter c.p., posto che in entrambe le ipotesi da essi tratteggiate l’estinzione del reato è in effetti collegata non solo all’integrale ristoro del danno civile, attuato con le «restituzioni» od il «risarcimento», ma anche, ove possibile, alla eliminazione delle «conseguenze dannose o pericolose del reato»: formula, questa, che alluderebbe al «danno criminale», ossia a quella lesione o messa in pericolo del bene giuridico che non necessariamente coincide, o coincide in toto, con il mero danno civile. Peraltro, a tale condizione il citato art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000 ne aggiunge come noto un’altra, di ancora più evidente sapore penalistico, ovverosia la necessità che le condotte post factum intraprese dal reo risultino «idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione». Orbene, appare evidente come tale previsione risulti finalizzata a valorizzare gli obbiettivi di prevenzione generale e di prevenzione speciale insiti nella pena, che assumono precipua rilevanza proprio nei casi nei quali il giudice ritenga il risarcimento e l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose non sufficienti a compensare il disvalore complessivo espresso dall’illecito, il che evita il rischio di improprie “monetizzazioni” della responsabilità penale. Proprio in conseguenza – verrebbe da dire – della maggiore complessità delle funzioni che la prestazione estintiva è chiamata a svolgere nelle due ipotesi normative richiamate, al giudice viene riconosciuto un potere di controllo penetrante, ma anche dai contorni più sfuggenti, circa l’attitudine del comportamento post-fattuale del reo a soddisfare tutte le esigenze che il legislatore, a fronte della promessa estinzione del reato, ha espressamente inteso comunque salvaguardare.
2.4. Se questi sono, sebbene per sommi capi, i principali “modelli” sui quali la moderna legislazione sembra avere plasmato le clausole estintive del reato connesse al comportamento attivo post factum del reo, non è difficile cogliere la diversa funzionalità rispetto agli obbiettivi ultimi di deflazione penale che esse vantano e le distinte problematiche che esse sollevano. A tale riguardo, basterà qui evidenziare come le previsioni che ricollegano l’effetto estintivo del reato unicamente all’avvenuto risarcimento del danno, se da un canto promettono di sortire i maggiori risultati deflattivi, poiché richiedono al reo unicamente di procedere a tale ristoro e comprimono il controllo del giudice su ciò che le parti di fatto concordano, dall’altro sollevano non poche riserve di ordine generale. Anzitutto, è lo stesso messaggio stigmatizzante che il diritto penale, quale misura estrema, dovrebbe inviare al corpo sociale a risultare in buona misura annichilito, tanto da non apparire del tutto peregrino interrogarsi in radice sulla stessa opportunità di conservare rilievo penale a fattispecie che poi consentono, nella sostanza, una definizione inter partes, e quasi “privatistica”, dell’illecito. Ed invero, delle due l’una: o si ritiene che il fatto provochi un allarme sociale tale da dovere essere in qualche modo controbilanciato, al limite anche con strumenti risarcitori che tendenzialmente coprano, però, ogni altra conseguenza prodotta, oppure si ritiene che, tutto sommato, il fatto abbia una risonanza sostanzialmente confinata alle sole parti coinvolte, di talché una «pena» in senso proprio non sia in verità propriamente necessaria. D’altro canto, il ritenere invece praticabile la “terza via” del reato estinguibile con il solo risarcimento del danno civile introduce il delicato problema dei criteri di selezione che il legislatore dovrebbe ragionevolmente utilizzare per circoscrivere tali fattispecie, il che sottende complesse valutazioni circa il bene giuridico protetto, la sua natura, la portata offensiva del fatto, la concentrazione del suo disvalore sull’evento piuttosto che sulla condotta, e via dicendo.
Il modello più elaborato di clausola estintiva, a sua volta, interroga quantomeno in un duplice senso. Da un canto, infatti, appare chiaro che, tanto maggiore sarà l’attenzione dedicata dal legislatore alla salvaguardia della idoneità satisfattoria della prestazione estintiva rispetto agli scopi tipici della pena, tanto più complessa sarà l’opera di intermediazione alla quale il giudice sarà chiamato, tanto più accidentato risulterà il percorso che conduce all’esito estintivo, e quindi a soddisfare quelle istanze deflattive che, come detto, costituiscono l’intima ragion d’essere delle clausole in parola. D’altro canto, tuttavia, è proprio la complessità delle valutazioni di ordine satisfattorio che al giudice vengono così rimesse che finisce fatalmente per dilatare oltremodo la sfera di discrezionalità – qui ancor più difficilmente sindacabile con criteri tendenzialmente oggettivi – riconosciuta al magistrato, e quindi per rimettere in discussione il delicato equilibrio tra quest’ultima ed il principio di legalità della pena.
2.5. In ogni caso, giova infine ricordare come al fondo di ogni scelta estintiva resti il nodo da sciogliere legato alla individuazione di quale funzione o di quale aspetto delle funzioni che la pena è in grado ontologicamente di svolgere si voglia nella sostanza esaltare, il che anche significa, a ben vedere, interrogarsi sul tipo di diritto penale che si voglia costruire.
Non è difatti un caso che, dal punto di vista storico, e fuori da ogni contingente urgenza del momento, il maggiore o minore “successo” riscosso da tali clausole tra la dottrina e nella legislazione abbia risentito: ora dell’emersione di originali concezioni dell’intero sistema penale, patrocinate dalla c.d. «Scuola positiva», che si sarebbe voluto rifondare non più sul tradizionale binomio “colpevolezza-pena”, bensì, tra gli altri, su quello “pericolosità-misura di protezione sociale”, nel cui contesto al risarcimento del danno veniva riconosciuta un efficace ruolo sanzionatorio, quanto meno nei confronti dei delinquenti primari riconosciuti di «minore pericolosità»; ora di quelle innovative costruzioni filosofiche dell’idea di «Giustizia penale» che al tradizionale fondamento kantiano della pena come malum passionis propter malum actionis contrapposero il diverso principio del bonum actionis propter malum actionis; ora della rinnovata sensibilità generale nei confronti della tutela della vittima, sospinta dagli studi che le ha riservato la «vittimologia» e dal ruolo sempre maggiore che ad essa, sia fuori che dentro il processo penale, anche la legislazione va progressivamente attribuendo; ora, infine, delle suggestioni provenienti da quelle teorie finalistiche della pena che hanno prospettato l’esistenza di risvolti “in positivo” della sua più tradizionale funzione general-preventiva, i quali, difatti, nell’evidenziare come lo stigma penale possa pedagogicamente concorrere ad accreditare nella società determinati valori ed a ristabilire nei consociati la fiducia nel sistema, in quanto si possa ritenere risolto in modo soddisfacente il conflitto nascente dal reato, consentirebbero al risarcimento del danno di coniugarsi in modo più coerente con gli scopi della pena rispetto a quanto esso farebbe nell’ambito delle visioni più tradizionali – specie di quelle retributive e general-preventive-intimidative – di quest’ultima.
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