Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta
7. Il decreto legislativo 231/2001
di Fausto Giunta
7.1. In relazione ad un catalogo di reati, tassativamente elencati, il sistema sanzionatorio è stato rafforzato dal d.lgs. n. 231 del 2001, che ha introdotto una nuova forma di responsabilità dell’ente collettivo per gli illeciti penali commessi nel suo interesse o a suo vantaggio. Competente a irrogare le nuove sanzioni, la cui natura afflittiva è fuori discussione, è il giudice penale, all’esito dello stesso processo celebrato nei confronti dell’autore materiale del reato.
I soggetti collettivi ai quali può applicarsi la nuova forma di responsabilità sono gli enti forniti di personalità giuridica nonché delle associazioni e fondazioni anche prive di personalità giuridica. Si può fondatamente dubitare, invece, che il gruppo di società costituisca un centro di imputazione autonomo e unitario ai fini dell’eventuale irrogazione della sanzione punitiva. Sono espressamente esclusi dal raggio di azione della normativa lo Stato (inteso come apparato esercente l’attività di amministrazione), gli enti pubblici territoriali (Comuni, Città metropolitane, Province e Regioni) nonché gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale (ad esempio, i partiti politici e i sindacati, entrambi generalmente costituiti in forma di associazioni non riconosciute).
7.2. Originariamente, il catalogo dei reati astrattamente ascrivibili era costituito da un ristretto numero di fattispecie elencate negli artt. 24 e 25, d.lgs. n. 231 del 2001, nei quali rientravano, tra le altre, la malversazione (art. 316-bis c.p.), l’indebita percezione di erogazioni (art. 316-ter c.p.), la truffa commessa in danno dello Stato o di altro ente pubblico (art. 640, comma 2, n. 1 c.p.) ovvero realizzata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.), la corruzione e la concussione (artt. 317 – 322-bis c.p.).
Ben presto, però, il catalogo dei reati si è allungato con l’inserimento nel d.lgs. n. 231 del 2001 di ulteriori fattispecie, riconducibili perlopiù all’area della criminalità economica. Il riferimento è ai delitti informatici e di trattamento illecito dei dati (art. 24-bis), ai delitti contro l’industria ed il commercio (art. 25-bis.1), ai reati societari (art. 25-ter), ai c.d. abusi di mercato (art. 25-sexies), all’omicidio colposo e alle lesioni personali gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (art. 25-septies), all’impiego di lavoratori stranieri il cui soggiorno è irregolare (art. 25-duodecies), ai delitti di ricettazione, riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita e autoriciclaggio (art. 25-octies), ai delitti in materia di violazione del diritto d’autore (art. 25-novies), ai c.d. reati ambientali (art. 25-undicies), alle frodi in competizioni sportive e all’esercizio abusivo del gioco d’azzardo o delle scommesse (art. 25-quaterdecies), e, infine, ai reati tributari (art. 25-quinquiesdecies).
E, ancora, la normativa in questione risulta applicabile anche ai delitti di falsità in monete, in carte di pubblico credito, in valori di bollo e in strumenti o segni di riconoscimento (art. 25-bis) nonché ai delitti di criminalità organizzata (art. 24-ter) e con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (art. 25-quater), alle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili (art. 25-quater.1), ai delitti contro la personalità individuale (art. 25-quinquies), al delitto di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria (art. 25-decies), e, infine, al delitto di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa (art. 25-terdecies).
Guardato complessivamente, l’elenco dei reati ascrivibili all’ente appare oggi tanto numeroso, quanto eterogeneo, al punto che la dottrina si è domandata se il suo progressivo allungamento non abbia finito per snaturare il nesso originario tra la nuova forma di responsabilità e il contrasto della criminalità di impresa.
7.3. L’art. 5 d.lgs. 231 del 2001 individua due classi di potenziali autori dei reati commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente collettivo. Un primo gruppo di soggetti è costituito da coloro che esercitano la rappresentanza, l’amministrazione o la direzione dell’ente nel cui ambito vengono, perciò, ad occupare una posizione apicale. Un secondo gruppo di potenziali autori dei reati c.d. presupposto è costituito dalle persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di coloro che occupano una posizione apicale.
Affinché l’ente venga punito, occorre l’ulteriore condizione che il reato sia stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente.
Dalla distinzione tra soggetti apicali e sottoposti discendono importanti implicazioni. Infatti, a norma dell’art. 6, comma 1, d.lgs. 231 del 2001, se il reato c.d. presupposto è commesso da un soggetto apicale, esso viene ricondotto direttamente e in via presuntiva all’ente in base al principio dell’immedesimazione organica. Per vincere tale presunzione, l’ente dovrà dimostrare di avere adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, un sistema (rectius: modello) organizzativo e gestionale idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
Diversamente, se il reato c.d. presupposto è commesso da soggetti subordinati spetta all’accusa provare che la sua commissione è stata resa possibile da una carenza organizzativa (i.d. la mancanza di un modello efficace) e in definitiva da una morfologia criminosa dell’ente.
7.4. Il difetto di organizzazione costituisce, dunque, un criterio di imputazione sostanzialmente colposo, al punto che si parla al riguardo di “colpa da organizzazione”. Con l’espressione “modello di organizzazione e gestione”, utilizzata dagli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231 del 2001, si indica, invece, lo strumento di razionalizzazione e monitoraggio delle procedure aziendali, finalizzate a contenere il rischio che uno o più reati vengano commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente.
Il sistema di prevenzione descritto nel modello, attuativo, come si è detto, dell’obbligo di “auto-organizzazione” interna, deve essere ritagliato sulle caratteristiche specifiche dell’ente e presuppone la previa valutazione del rischio di verificazione dei reati c.d. presupposto, in considerazione dell’attività concretamente svolta.
Una volta mappato il rischio di reati, il modello dovrà individuare le procedure preventive in grado di azzerare o ridurre i fattori di rischio analiticamente censiti.
L’efficace attuazione del modello è affidata, in via continuativa, all’organismo di vigilanza, cui compete di verificare l’osservanza dei protocolli gestionali sollecitandone, se del caso, l’aggiornamento. L’organismo di vigilanza deve essere indipendente e dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo.
7.5. L’apparato sanzionatorio allestito dal d.lgs. n. 231 del 2001 si presenta efficace e idoneo ad assicurare la funzione di prevenzione generale nella sua accezione più classica, ossia come “contromotivazione” al reato mediante la minaccia della punizione. La punizione degli enti è connotata tuttavia anche da una non secondaria funzione specialpreventiva, nella misura in cui, post factum, il sistema favorisce, induce o impone un ripensamento organizzativo e gestionale dell’ente e, nei casi estremi, un rinnovamento delle cariche sociali apicali.
La sanzione pecuniaria si applica sempre ed è determinata sulla base di un sistema per “quote” il cui numero non può essere inferiore a cento né superiore a mille; quanto all’importo, invece, una quota va da un minimo di 258 euro fino ad un massimo di 1.549 euro.
Per quel che concerne il numero delle quote, il primo parametro che viene in rilievo è rappresentato dalla gravità del fatto. Un ulteriore criterio è dato dal grado della responsabilità dell’ente, che risulterà più o meno elevato a seconda che il reato c.d. presupposto sia stato commesso da un soggetto apicale oppure da un subordinato. Tra gli altri parametri oggettivi di commisurazione, vanno ricordate le condotte riparatorie messe in atto dall’ente per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e, per altro verso, prevenire la commissione di nuovi illeciti.
Passando alla determinazione del valore della singola quota, il giudice dovrà tener conto delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente, al fine di assicurare l’efficacia della sanzione.
7.6. Le sanzioni interdittive, elencate dall’art. 9, comma 2, d.lgs. n. 231 del 2001 (l’interdizione dall’esercizio dell’attività, la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni; il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi, sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni e servizi) rappresentano il più temibile strumento di contrasto della criminalità dell’ente, tanto che la loro applicazione è rigorosamente disciplinata. Dispone, infatti, l’art. 13 d.lgs. n. 231 del 2001 che tali sanzioni si applicano solo se espressamente previste con riferimento ai singoli reati c.d. presupposto e, comunque, nei casi più gravi; vi rientrano, ad esempio, le ipotesi di reiterazione dell’illecito (v. art. 20 d.lgs. n. 231 del 2001), così come i reati da cui è derivato un rilevante profitto.
Le sanzioni interdittive sono in ogni caso temporanee, così come previsto in primis dall’art. 11, lett. b), della legge delega e, poi, dall’art. 13, comma 2, d.lgs. n. 231 del 2001, che ne gradua la durata da un minimo di tre mesi ad un massimo di due anni, rimettendo al giudice la loro determinazione in concreto sulla scorta dei medesimi criteri di commisurazione della pena pecuniaria di cui all’art. 11 d.lgs. n. 231 del 2001.
Il criterio generale appena enunciato soffre un’eccezione, introdotta con la l. n. 3 del 2019 nel quadro di un più ampio intervento normativo teso a irrobustire la risposta punitiva con riguardo ai delitti contro la pubblica amministrazione. In particolare, con riferimento a questi ultimi illeciti, l’art. 25, comma 5 (richiamato dallo stesso art. 13, comma 2) prevede che le sanzioni interdittive siano disposte per una durata non inferiore a quattro anni e non superiore a sette anni se il reato-presupposto è stato commesso da un soggetto “apicale”, ovvero per una durata non inferiore a due anni e non superiore a quattro qualora il reato-presupposto sia stato commesso da un soggetto “subordinato”.
L’applicazione delle sanzioni interdittive è esclusa quando essa comporterebbe l’interruzione di un servizio pubblico (art. 358 c.p.) o di pubblica necessità (art. 359 c.p.) da cui possa derivare un pregiudizio per la collettività; affiora, in questo caso, l’esigenza di bilanciare gli interessi in gioco. Lo stesso deve dirsi per l’esclusione delle sanzioni interdittive quando il blocco dell’attività dell’ente può provocare rilevanti ripercussioni sull’occupazione. In questi casi, ove ritenga di non applicare la sanzione interdittiva, il giudice, ai sensi dell’art. 15 d.lgs. n. 231 del 2001, dispone l’insediamento di un commissario per un tempo pari alla durata della sanzione interdittiva, con il compito, tra l’altro, di adottare il modello di organizzazione e di gestione di cui all’art. 6 d.lgs. n. 231 del 2001.
Il giudice dovrà prescegliere la sanzione interdittiva da applicare tenendo conto della sua idoneità a prevenire illeciti del tipo di quello verificatosi, con l’avvertenza che, se una sola sanzione sia insufficiente allo scopo, egli potrà irrogarne più di una.
7.7. Al pari della sanzione pecuniaria, anche la confisca del prezzo o del profitto del reato è sempre disposta con la sentenza di condanna, salvo per la parte che può essere restituita al danneggiato ed impregiudicati i diritti acquisiti dai terzi in buona fede. La confisca può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità equivalenti al prezzo o al profitto del reato, compreso quello eventualmente conseguito durante il commissariamento dell’ente.
Infine, la sanzione della pubblicazione della sentenza di condanna, prevista dall’art. 18 d.lgs. n. 231 del 2001, è facoltativa e accessoria, posto che la sua operatività è subordinata all’applicazione di una delle sanzioni interdittive.
83 di 207