testi ed ipertesti

Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta

Capitolo XII | Le innovazioni concernenti la risposta sanzionatoria

 

1. Il sistema delle sanzioni: premessa

di Fausto Giunta

 

 1.1. Anche il nostro sistema penale si caratterizza per il primato della pena detentiva, che perdura tutt’oggi sebbene nel tempo si sia attenuato.

 Le pene principali, infatti, sono in prevalenza detentive e in alternativa pecuniarie. Le prime sono sanzioni di durata e si distinguono, sotto il profilo nominale più che sotto quello del contenuto afflittivo, nella reclusione e nell’arresto, a seconda che riguardino rispettivamente un delitto o una contravvenzione (artt. 23 e 25 c.p.). La pena dell’ergastolo, nonostante i suoi ritenuti profili di incostituzionalità per contrasto con il principio della rieducazione del condannato (art. 27, comma 3, cost.), è prevista dall’art. 22 c.p. come pena perpetua. È fatta salva, tuttavia, la possibilità che il condannato, dopo aver scontato una parte della pena, acceda ai benefici penitenziari, riacquistando in tutto o in parte la libertà.

 Le pene pecuniarie sono la multa e l’ammenda, a seconda che si riferiscano a un delitto o a una contravvenzione (artt. 24 e 26 c.p.).

 1.2. Mentre le pene detentive e l’ergastolo limitano la libertà personale, le pene pecuniarie consistono nell’obbligo di parare allo Stato una somma di denaro. Nel disegno originario del codice Rocco la pena pecuniaria insoluta si convertiva direttamente in pena detentiva della specie corrispondente. Oggi, a seguito del recente d.lgs. n. 150 del 2022, si distingue opportunamente tra insolvenza e insolvibilità del condannato. La nuova regola generale prevede che la multa e l’ammenda inadempiute si convertono in semilibertà sostitutiva (v. il nuovo testo dell’art. 102 l. 24 novembre 1981, n. 689) secondo il criterio di ragguaglio per il quale un giorno di semilibertà sostitutiva equivale a euro 250 (art. 135 c.p.). Nel caso di accertata insolvibilità, la pena pecuniaria si converte nel lavoro di pubblica utilità sostitutivo e, se il condannato si oppone, nella detenzione domiciliare sostitutiva (v. il nuovo testo dell’art. 103 l. 24 novembre 1981, n. 689). Ciò conferma che in definitiva la caratteristica basilare del nostro diritto penale è tuttora la sua incidenza, diretta o indiretta, sulla libertà personale del condannato. Nell’ipotesi infatti di inosservanza delle prescrizioni inerenti alla semilibertà sostitutiva, alla detenzione domiciliare sostitutiva e al lavoro di pubblica utilità sostitutivo, quali pene da conversione della multa e dell’ammenda, la pena sostitutiva viene revocata e la parte residua convertita in una sanzione sostitutiva più grave o in un uguale periodo di reclusione o di arresto a seconda che la pena pecuniaria riguardi un delitto o una contravvenzione (art. 108, l. n. 689 del 1981).

 1.3. Concentrando l’attenzione sulla pena detentiva temporanea, bisogna distinguere la cornice legale dal compasso edittale.

 La cornice legale coincide con il minimo e il massimo di pena previsti dal codice penale per ciascuna tipologia di pena detentiva. Vengono qui in rilievo gli artt. 23 e 25 c.p., secondo i quali la reclusione si estende da quindici giorni a ventiquattro anni e l’arresto da cinque giorni a tre anni.

 Il compasso edittale indica invece il minimo e il massimo di pena previsti dal legislatore per ogni singola fattispecie incriminatrice. Com’è intuitivo, in nome della coerenza del sistema, il compasso edittale non dovrebbe poter superare nel minimo e/o nel massimo la cornice legale di pena. Nulla può escludere, però, una siffatta eventualità. Si pensi, ad esempio, all’art. 630 c.p., per come è stato riformato dalla l. n. 894 del 1980), che è punito con la pena della reclusione da venticinque a trent’anni. Considerato che l’art. 23 c.p. e il riformato art. 630 c.p. sono posti dalla stessa fonte, la seconda finisce per derogare alla prima, minandone la funzione definitoria per così dire generale. Il contrasto tra atti legislativi o ad essi equiparati fa sì che la norma successiva prevalga su quella definitoria, senza altra conseguenza oltre a quella di aver creato un po’ di confusione.

 Dalla pena comminata (ossia, prevista in astratto dal legislatore per la singola figura di reato) si distingue la pena applicata in concreto dal giudice al colpevole di un fatto costituente reato, riconosciuto tale all’esito del processo penale. In tal caso si parla di pena irrogata@.

 Breve: la comminatoria di pena soddisfa esigenze di prevenzione generale. Si parla infatti di pena minacciata. L’irrogazione di pena risponde invece a un’istanza di proporzione rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto storico costituente reato. L’applicazione della pena in concreto presuppone infatti il suo adattamento al caso concreto, attraverso la sua corretta quantificazione ad opera del giudice. Si parla al riguardo di commisurazione in sensi stretto, in quanto contenuta entro il minimo o il massimo edittali (art. 132 c.p.), sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p. Il minimo e il massimo edittali possono essere superati, invece, per effetto di circostanze attenuanti o aggravanti, comuni o speciali (artt. 61 e seg. c.p.). Si parla a tale proposito di commisurazione extraedittale.

 La coerenza del sistema sanzionatorio, però, si è persa nell’arco degli ultimi decenni. Molti degli assi portanti sono stati modificati profondamente al punto che l’impianto sanzionatorio originario si ritiene oramai del tutto disintegrato.

 

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