testi ed ipertesti

Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta

2. Gli ecodelitti

di Costanza Bernasconi

 

 2.1. L’inserimento nel codice penale del nuovo Titolo VI bis (“Dei delitti contro l’ambiente”), ad opera della l. n. 68 del 2015, nonché l’ulteriore integrazione apportata a detto Titolo con il d.lgs. n. 21 del 2018, costituiscono emblematicamente espressione del tentativo del legislatore di “ritornare” al Codice come strumento privilegiato per la tutela di determinati interessi.

 Il primo tra i due citati interventi normativi era atteso da molti anni. L’obiettivo da esso perseguito aveva, infatti, già in passato ispirato numerosi progetti di riforma e ottenuto un convinto sostegno da parte della dottrina, in considerazione della ritenuta necessità di includere la tutela dell’ambiente nel c.d. nucleo “duro” del diritto penale (Kernstrafrecht).

 L’introduzione delle nuove fattispecie delittuose all’interno del codice penale ha, peraltro, segnato l’inizio della “terza età” del diritto penale ambientale.

 2.2. Quest’ultimo, infatti, ab origine (vale a dire, nella sua “prima età”), in assenza di una normativa che prevedesse specifiche fattispecie sanzionatorie concepite per la tutela delle risorse naturali, nacque e si sviluppò sostanzialmente come diritto di creazione giurisprudenziale. A fronte, cioè, di un vuoto normativo e di un legislatore allora del tutto inadempiente, la giurisprudenza intraprese a cavallo degli anni ’60 e ‘70 una strada pionieristica, senz’altro animata da lodevoli intenti, ma gravida di pericoli sotto il profilo del rispetto dei fondamentali principi garantisti, primo tra tutti quello di legalità, specie nella sua più peculiare declinazione della determinatezza o precisione della fattispecie. Il riferimento va, come è intuitivo, a quelle operazioni interpretative volte non solo a piegare, ma in alcuni casi anche a forzare, in funzione della tutela del bene ambiente allora emergente, la tipicità di fattispecie codicistiche esistenti, ma evidentemente pensate dal legislatore del ’30 per finalità completamente diverse. Operazioni, queste, portate avanti in sede applicativa anche in tempi recenti (pur dopo l’avvento di una normativa specialistica ad hoc) fino all’introduzione dei citati nuovi ecodelitti.

 Tuttavia, i rischi insiti in espedienti di questo tipo non tardarono a manifestarsi e divennero ben presto di immediata percezione, sotto il profilo sia – come detto – del rispetto delle fondamentali garanzie che connotano il diritto penale, sia degli esiti applicativi che in alcuni casi si rivelarono del tutto fallimentari.

 Anche per tali ragioni il legislatore a poco a poco iniziò a reagire, nel corso di quella che potremmo definire la “seconda età” del diritto penale ambientale. Cominciò così ad affermarsi progressivamente una legislazione specificamente volta alla tutela, anche penale, del bene ambiente, pur se furono immediatamente chiare le difficoltà tecniche insite nell’operazione di tipizzazione di fattispecie incriminatrici che inevitabilmente – lo si voglia o meno – devono sforzarsi di realizzare un delicatissimo contemperamento tra interessi contrapposti. E’ evidente, infatti, che ogni attività umana, dalla più semplice alla più complessa, è suscettibile di realizzare quotidianamente una molteplicità di (micro o macro) aggressioni alle risorse naturali. Ed è altrettanto evidente che risulterebbe del tutto utopistico vietare e/o sanzionare tutte le predette attività, alcune delle quali appaiono imprescindibili per la vita dell’uomo (si pensi, non solo all’attività industriale, bensì, più banalmente, ad un’attività come quella di gestione e smaltimento dei rifiuti, che ha indubbiamente un notevole impatto ambientale, ma che risulta irrinunciabile).

 In tale prospettiva si spiega allora la difficile opera di mediazione realizzata dal legislatore in sede extrapenale, attraverso la predisposizione di minuziose normative tecniche volte a disciplinare, monitorare e contenere i rischi insiti nelle predette attività, al fine di mantenerli all’interno della sfera di c.d. rischio consentito dall’ordinamento. Da qui si comprende anche la previsione di procedimenti amministrativi di controllo preventivo e di successiva verifica delle attività potenzialmente inquinanti, nonché di limiti di accettabilità, volti a segnare con precisione il confine tra liceità e illiceità. Una strada, questa, tipicamente adottata in relazione a quelle fenomenologie dannose, la cui prevenzione richiede complicate conoscenze specialistiche e – come anticipato – complesse operazioni di bilanciamento@.

 2.3. Per lungo tempo, dunque, il paradigma privilegiato di illecito utilizzato dal legislatore nell’ambito della legislazione speciale extra codicem è stato quello del reato di pericolo astratto, volto – in primis – a presidiare l’osservanza della predetta opera di perimetrazione del rischio giuridicamente consentito. La logica del bilanciamento degli interessi nell’ambito del diritto penale ambientale ha, in siffatta fase di vita del diritto penale ambientale, forgiato direttamente la tipicità penale, posto che la ricerca del punto di equilibrio tra i beni in gioco non è stata rimessa al giudice, ma è stata risolta dal legislatore, il quale, in sede penale, ha sottratto all’intervento punitivo il perimetro di liceità già tracciato dalla disciplina extrapenale.

 Nel corso del tempo, tuttavia, la tutela affidata ad illeciti di pericolo astratto di natura quasi esclusivamente contravvenzionale ha mostrato diversi limiti, segnatamente a fronte delle più gravi forme di aggressione ambientale e ci si è resi conto che l’arsenale sanzionatorio doveva essere implementato attraverso la previsione di ipotesi delittuose più gravemente sanzionate. Fin da subito, però, apparve chiaro come l’opzione politico-criminale ispirata al modello c.d. penalistico puro non potesse porsi come alternativa alla tecnica normativa utilizzata nell’ambito della legislazione speciale extra codicem, bensì fosse destinata ad integrarla, in considerazione del fatto che la tutela quotidiana delle risorse naturali non può che passare attraverso una dettagliata disciplina amministrativa delle immissioni consentite, la cui osservanza è già presidiata da apposite fattispecie punitive.

 Si comprende allora come da tempo si coltivasse l’idea di introdurre nuove fattispecie delittuose, destinate a colpire adeguatamente i più gravi fenomeni di inquinamento e pregiudizio ambientali a fronte dell’acquisita prova del nesso di causalità tra le suddette condotte inosservanti (già rilevanti a titolo contravvenzionale) e siffatte rilevanti compromissioni. Infatti, in mancanza della fattispecie di evento, il surplus di offensività rispetto alla fattispecie di pericolo astratto rimaneva, di fatto, non coperto, in termini di dosimetria sanzionatoria, dalle fattispecie contravvenzionali@.

 2.4. Lo scopo dei nuovi ecodelitti avrebbe, dunque, dovuto essere quello di rafforzare gli strumenti di contrasto nei confronti della criminalità ambientale, senza però rinnegare lo sforzo di perimetrazione della liceità di attività socialmente utili, e in quanto tali giuridicamente autorizzate e disciplinate, svolta dal legislatore in sede extrapenale.

 Avrebbe dovuto, in tal modo, aprirsi – come detto – la terza età del diritto penale ambientale, un’età matura, che avrebbe dovuto far tesoro del suo percorso evolutivo, durato decenni.

 Sennonché, il legislatore, con la riforma del 2015, non ha resistito alla tentazione di creare, attraverso la previsione dei nuovi ecodelitti, presidi punitivi omnicomprensivi, in nulla idonei a contenere la discrezionalità giudiziale in sede applicativa. L’opera di ricostruzione della tipicità risulta, infatti, ora affidata all’esegesi di incerti ed evanescenti concetti che si avvicendano nella descrizione delle diverse fattispecie incriminatrici, ma che risultano del tutto privi di un’autentica funzione selettiva dei comportamenti penalmente rilevanti@. Si pensi, solo a titolo esemplificativo, agli indici di “significatività” e “misurabilità”, che dovrebbero caratterizzare l’evento di inquinamento ai sensi dell’art. 452-bis, o all’avverbio “abusivamente”, che qualifica, quale controverso requisito modale della condotta, le più significative ipotesi di delitto ambientale@.

 Siffatta istanza di integrale penalizzazione, che finisce per mettere nuovamente nelle mani del giudice l’individuazione dell’area di rilevanza penale, ha prevalso sulle istanze di garanzia, rinnegando – a parere di chi scrive – l’idea stessa di “ricodificazione”. 

 La codificazione, infatti, sottende una precisa concezione e funzione del diritto, tanto più evidente nel settore penale, là dove la potenziale incidenza delle sue armi sulla libertà personale impone un rafforzamento del principio di legalità, inteso come fondamento e perimetro operativo di intervento, reso, dunque, in tal modo indisponibile da parte della giurisdizione.

 Non solo. L’aspirazione ad una rinnovata centralità del Codice dovrebbe essere strumentalmente diretta ad assicurare maggiore conoscibilità e più chiara intellegibilità delle norme penali, funzionali alla prevedibilità delle conseguenze dell’agire da parte di ogni consociato.

 2.5. In tale prospettiva, si comprende, peraltro, la ratio del secondo citato intervento normativo (realizzato con d.lgs. n. 21 del 2018), per effetto del quale, in attuazione del principio della riserva di codice, contestualmente introdotto all’art. 3 bis c.p., si è deciso di ricondurre all’interno del Titolo VI-bis anche il delitto di Attività organizzate per il traffico illecito dei rifiuti, fino a quel momento disciplinato nell’ambito della legislazione speciale.  

 Nondimeno, a dispetto di siffatte buone intenzioni, il risultato complessivo raggiunto con l’edificazione del nuovo Titolo VI-bis (se si eccettua la valorizzazione e la “visibilità” che la collocazione codicistica ha senz’altro conferito al bene protetto) è apparso fin da subito piuttosto deludente.

 La mancanza di determinatezza delle neonate fattispecie impedisce, infatti, inter alia, di individuare il preciso spettro applicativo delle stesse, nonché di determinare una chiara linea di confine rispetto agli illeciti descritti nell’ambito della legislazione speciale. Il rischio tangibile è che lo spazio applicativo riconducibile a questi ultimi venga, nella prassi applicativa, fagocitato dai nuovi ecodelitti, senza – tuttavia – che di questi si possano neppure nitidamente individuare i tratti fisionomici caratterizzanti.

 Un paradosso per concludere. La fattispecie delittuosa, tra quelle attualmente presenti nel Titolo VI-bis, che vanta il maggior grado di determinatezza è quella nata, ab origine, nell’ambito della legislazione speciale, vale a dire proprio il delitto di Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, ora prevista dall’art. 452-quaterdecies.

 L’ingresso nel Codice del “fratello acquisito” ha fatto, dunque, ancor più sfigurare quelli che dovrebbero costituire i principali paradigmi sanzionatori delle più gravi offese alle risorse naturali, dimostrando come la vetrina, sia pur bella e prestigiosa, da sola non basta per far brillare i suoi contenuti.

 

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