Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta
2. Il diritto penale societario
di Gianfranco Martiello
2.1. Tra i settori di intervento della pena sin dalle origini decodificati, spicca, per il suo indubbio rilievo pratico, quello del diritto penale societario. In effetti, non è difficile comprendere come, rispetto all’esercizio individuale dell’impresa, quello collettivo consenta il reperimento di un maggiore capitale d’investimento, e perciò l’esercizio di una attività economica maggiormente complessa sotto il profilo organizzativo e di più vaste dimensioni, con potenziali ricadute benefiche sia all’interno della stessa società, sia al suo esterno.
D’altro canto, occorre considerare che la possibilità giuridica, riconosciuta ai soci, di innalzare uno “schermo societario” tra il loro patrimonio individuale e le ragioni degli eventuali creditori dell’ente collettivo ha imposto al legislatore la necessità di prevedere anche una serie di norme che disciplinassero la costituzione, la vita e l’estinzione di quest’ultimo, in modo da garantire, per quanto possibile, le ragioni dei suoi eventuali creditori e degli stessi soci di minoranza.
Ciò vero, non deve stupire il fatto che, nella prospettiva del rafforzamento di tali garanzie, il legislatore abbia presidiato l’osservanza delle più rilevanti disposizioni regolanti la vita delle società commerciali con la comminatoria della pena. È così nato – in seno al codice di commercio, prima, ed al codice civile, poi – lo specifico plesso normativo noto ai più come «diritto penale societario» (o «delle società»), che ha storicamente strutturato le proprie fattispecie, almeno in origine, secondo il modello della clausola sanzionatoria della violazione di precipue disposizioni della normativa civilistica retrostante, ovvero, per poche figure di reato, sul paradigma del reato di truffa. Si pensi, a tale riguardo, agli art. da 246 a 250 del codice di commercio del 1882, contenenti le scarne «Disposizioni penali» a chiusura del Titolo IX, Libro I, dedicato alle «Società e […] associazioni commerciali»@, alla l. n. 660 del 1931, che aveva convertito il precedente r.d.l. n. 1459 del 1930, recante «Disposizioni penali in materia di società commerciali»@, ovvero agli originari artt. da 2621 a 2642 del codice civile, che lo stilema del diritto penale puramente sanzionatorio portarono al parossismo, come ad esempio sommamente dimostravano, tra gli altri, gli abrogati artt. 2630 e 2632 c.c.@.
2.2. La disciplina penale fondamentale delle società commerciali continua ad essere anche oggi racchiusa negli artt. 2621 ss. del codice civile, il cui attuale volto, tuttavia, appare assai diverso da quello che essi presentavano nel lontano 1942. Sebbene non certo poche siano state le novelle che, a partire dalla metà degli anni ottanta del secolo scorso, hanno contribuito in varia misura ad emendare la costellazione degli illeciti in discorso, spesso in parallelo con quanto lo stesso legislatore faceva sul versante della disciplina civile delle società, non v’è dubbio che l’intervento riformatore più incisivo sia stato quello operato dal d.lgs. n. 61 del 2002, che introdusse una radicalmente nuova «Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali»@.
La ragione per la quale tale ultima novella deve qui prendersi in considerazione, seppur in modo cursorio, risiede non tanto nel fatto che essa continua comunque a costituire l’impalcatura portante dell’odierno diritto penale societario, sebbene esso se ne sia in più parti allontanato, ma soprattutto nella circostanza che essa ha costituito il più vistoso tentativo di conferire alle fattispecie qui in rilievo una struttura la più possibile autonoma rispetto alla normativa civile sottostante, e smarcare così questa costellazione criminosa dal tradizionale cliché del diritto penale extracodicistico che, nell’incriminare a tappeto la disubbidienza a precetti aliunde creati, risulta dimentico del canone di frammentarietà. Da qui, un significativo mutamento genetico sia dei beni giuridici protetti, sia – e conseguentemente – delle tecniche di tutela adottate dal legislatore.
Non potendosi qui dilungare su di un argomento del resto assai articolato e complesso, sarà sufficiente rilevare come, nel disgiungere la comminatoria della pena dalla previa violazione di un precetto civile di volta in volta segnatamente richiamato, la novella del duemiladue abbia inteso anche tendenzialmente abbandonare la stratificata credenza che il diritto penale societario dovesse soprattutto salvaguardare l’astratta integrità di quei beni giuridici di natura artificiale preformati dalla normativa civilistica di settore (le cc.dd. «istituzioni societarie»), avendo al contrario scelto di connotare le oggettività giuridiche autonomamente protette dalle riformate fattispecie penali in senso fortemente patrimoniale. Da qui, non solo l’introduzione di figure di reato – per vero da tempo reclamate dalla più lungimirante dottrina – che proprio sulla tutela del «patrimonio societario» risultavano così espressamente incentrate, come ad esempio la «Infedeltà patrimoniale» dell’art. 2634 c.c. o la c.d. “corruzione tra privati” dell’iniziale versione dell’art. 2635 c.c., ma, viepiù, la connotazione in senso patrimoniale di fattispecie tradizionali in precedenza focalizzate sulla protezione di beni giuridici strumentali dai connotati più sfuggenti, testimoniata, ad esempio, dall’inserzione al loro interno di inediti eventi di danno patrimoniale, del dolo specifico di profitto, del dolo intenzionale di danno, di soglie quantitative di rilevanza degli effetti patrimoniali della condotta criminosa, di clausole estintive del reato vincolate alla ricostituzione pecuniaria dell’entità economica da quest’ultima dispersa o pregiudicata, e via discorrendo.
2.3. Sebbene poi con gli artt. 9 ss. della l. n. 69 del 2015 il legislatore abbia operato una sorta di “controriforma” rispetto all’intervento del duemiladue, pur limitata alle sole – ma statisticamente rilevanti – fattispecie di «False comunicazioni sociali», non v’è dubbio che, come già si è detto, molte delle novità introdotte dal citato d.lgs. n. 61 del 2002 continuino ancora oggi a costituire ius conditum.
Tuttavia, ciò non deve portare a ritenere che la costellazione dei reati societari che emerge dagli attuali artt. 2621 ss. c.c. costituisca oggi un corpus normativo autonomo dalla disciplina civile delle società commerciali, la quale, al contrario, continua a costituirne l’indispensabile presupposto logico-concettuale ed applicativo.
Ed invero, se, da un canto, è agevole constatare come siano oggi praticamente scomparse da tale plesso normativo fattispecie criminose costruite esplicitamente sul modello strutturale della “clausola meramente sanzionatoria”, dall’altro, tuttavia, non può sfuggire come il ricorso alla disciplina civilistica continui a risultare di fatto irrinunciabile per la compiuta comprensione del precetto penalmente sanzionato, e quindi per la sua pratica applicazione.
A ben vedere, in effetti, praticamente tutte le fattispecie de quibus contengono uno o spesso più «elementi normativi» il cui significato non può che perimetrarsi se non ricorrendo alla normativa civile del fenomeno societario, come dimostrano, tra i numerosissimi esempi che si potrebbero snocciolare, i riferimenti alle «comunicazioni sociali […] previste dalla legge» (id est: dalla legge civile), ai «bilanci», ai «conferimenti», alle «riserve legali», alle «fusioni» o «scissioni» societarie, alla «convocazione dell’assemblea dei soci nei casi previsti dalla legge» (scilicet: dalla legge civile), che lì si rinvengono numerosi. Il che spiega, con tutta probabilità, il motivo per il quale i reati societari siano stati da subito collocati al di fuori del codice penale ma in coda alla disciplina civile del fenomeno societario, dalla quale essi paiono sistematicamente difficili da scindere.
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