testi ed ipertesti

Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta

Capitolo IX | La legislazione penale extra codicem

 

1. La c.d. decodificazione

di Gianfranco Martiello

 

 1.1. Accanto alla parte speciale codicistica, di cui si è detto, si sono venuti sempre più sviluppando settori normativi che costituiscono quello che correntemente viene designato come «diritto penale complementare». Per vero, quest’ultima espressione sembra letteralmente sottintendere il fatto – probabilmente vero all’indomani della codificazione – che le fattispecie incriminatrici dislocate al di fuori del codice penale siano, appunto, del tutto “complementari”, “accessorie” rispetto a quelle contenute nella parte speciale del codice, e ciò sia per quantità che per rilevanza degli oggetti tutelati.

 Orbene, ove si preferisca si può tutt’ora continuare a parlare di «diritto penale complementare», come del resto molti fanno, ma nella consapevolezza che, ad oggi, siffatta espressione allude solo alla circostanza che le figure criminose che lo compongono sono collocate al di fuori del codice penale, ma non certo al fatto che esse risultano meramente “accessorie”, “complementari” rispetto a quelle contenute nei Libri II e III del codice penale, che si vorrebbero, al contrario, come “principali” e numericamente prevalenti.

 Ed invero, ove si gettasse uno sguardo anche superficiale all’odierno ordinamento penale, balzerebbero subito agli occhi due innegabili circostanze di fatto. La prima è che le ipotesi criminose extracodicistiche risultano numericamente superiori a quelle contenute nella parte speciale del codice. La seconda è che, se è vero che nella parte speciale del codice penale continuano a trovarsi i reati per così dire “più tradizionali” (ed in primis i cc.dd. «delitti naturali»), che appartengono al nucleo delle costanti storiche di ogni ordinamento penale un minimo evoluto (si pensi all’omicidio, al sequestro di persona, al furto, alla rapina, ecc.), non è meno vero, però, che molte delle fattispecie collocate al di fuori del codice scolpiscono condotte considerate oggi molto gravi, e tutelano beni giuridici che, quanto meno nelle società moderne, hanno acquistato un enorme valore sociale: si pensi, ad esempio, ai reati in materia di traffico di sostanze stupefacenti, di armi, di immigrazione, così come ai reati tributari, ai reati fallimentari, a quelli in materia di violazione della privacy, ecc. Si consideri, inoltre, che il codificatore del 1930 decise scientemente di non collocare nella sua «Parte speciale» reati assolutamente rilevanti già allora, come ad esempio i reati tributari, i reati societari e quelli fallimentari: fattispecie criminose, tutte queste, che anche il successivo legislatore repubblicano, peraltro, ha deciso di mantenere al di fuori del codice.

 1.2. Bisogna interrogarsi allora sul perché del diritto penale speciale extra codicem e sulle principali ragioni della sua costante crescita.

 In primo luogo, va tenuto presente che alcune regolamentazioni penali sono nate all’insegna della eccezionalità e della sperata provvisorietà (si pensi alla normativa antiterrorismo degli anni ‘70), ma poi, in realtà, si sono consolidate.

 In secondo luogo, occorre considerare che la parte speciale extra codicem si è prestata a soddisfare istanze di tutela eterogenee rispetto a quelle codicistiche sotto il profilo dei beni e delle tecniche normative di tutela. Ed invero, la gestione dei numerosi interessi contrapposti che spesso si agitano nelle moderne società complesse ben difficilmente risulta condensabile in un precetto penale di poche righe, come tipicamente sono, invece, quelli codicistici. È così che il legislatore sempre più spesso demanda all’autorità amministrativa la mediazione tra siffatti interessi, il cui raggiunto bilanciamento il diritto penale si limita poi a presidiare. Da qui, la prassi dei regolatori di redigere “appendici sanzionatorie penali” poste a chiusura di leggi che regolamentano un determinato settore, aventi il più delle volte la funzione di reprimere con la pena la violazione di quell’assetto di interessi che è la pubblica amministrazione ad avere cristallizzato in quel certo atto o provvedimento amministrativo (c.d. «amministrativizzazione» del diritto penale), ovvero la tendenza a confezionare fattispecie penali abusando della c.d. «tecnica del rinvio»: fenomeno, questo, che si manifesta, ad un primo livello, nella massiccia iniezione nel precetto penale di elementi normativi la cui definizione è rimessa a norme extrapenali e, ad un secondo livello, nella sostanziale riduzione della figura criminosa a mera clausola sanzionatoria della violazione di una specifica regola comportamentale introdotta dalla disciplina civile od amministrativa di settore.

 In terzo luogo, bisogna considerare che la capienza del codice e la sua architettura non avrebbero retto all’impatto di una crescente quantità di materiale normativo, dovuto al ricorso inflazionistico alla sanzione penale, che nel tempo il legislatore ha sostanzialmente cessato di considerare propriamente come misura di extrema ratio per la tutela di specifici e ben individuati beni giuridici, ma ha inteso, al contrario, quale immediato mezzo di controllo sociale.

 1.3. Non v’è dubbio che la crescita a dismisura della parte speciale extra codicem tradisce il mito della legislazione organica, di cui il codice voleva essere la massima espressione.

 Nella tradizione illuministica, infatti, la codificazione svolgeva una funzione ordinatoria e razionalizzante del diritto, contrapposta alla disordinata pluralità e contraddittorietà delle fonti di ancien régime. Resta tuttavia il fatto che il mito della codificazione è in crisi in Italia così come in altri paesi dell’Europa continentale, i cui ordinamenti giuridici risultano anch’essi connotati da un profluvio, spesso disordinato, di leggi esterno al corpo del codice.

 Né si può troppo insistere sui vantaggi che la codificazione offrirebbe facilitando la conoscibilità della legge. Da un lato, infatti, occorre prendere atto di come il nostro codice sia ormai affetto da un processo di c.d. «balcanizzazione», e cioè risulti afflitto dalla presenza di interne frammentazioni e rabberciature. Dall’altro, bisogna riconoscere che la conoscibilità della legge è ostacolata, più che dalla collocazione topografica dell’enunciato normativo, dalla instabilità delle interpretazioni. Peraltro, l’odierna informatizzazione della legislazione ha modificato il modo di reperire i testi normativi, favorendone la conoscenza attraverso i motori di ricerca e le banche dati, che rendono obsoleto l’uso dei vecchi strumenti cartacei. Rimane, semmai, un qual certo valore simbolico che assumono le figure di reato collocate nel codice, ma, a ben vedere, si tratta di un simbolismo effimero, smentito da tante fattispecie codicistiche assai poco applicate e dalla presenza di settori invece assai più vitali del diritto penale extra codicem.

 1.4. Sul finire degli anni settanta del secolo scorso, la dottrina giusprivatista osservava come il diritto civile vivesse ormai da anni nella «età della decodificazione», con ciò volendo sottolineare la tendenza del legislatore non solo – e non tanto – a collocare topograficamente la disciplina di fenomeni sempre più rilevanti della vita sociale in leggi extra codicem, ma soprattutto a costruire veri e propri “sottosistemi” giuridici, ossia discipline organizzate che regolamentano specifici settori dell’ordinamento secondo regole e principi che divergono, anche in modo significativo, da quelli espressi dal codice civile@. Da qui, il manifestato timore che lo stesso ordinamento giuridico smarrisse la propria unitarietà e coerenza, che a ben vedere ne costituisce l’essenza concettuale.

 In effetti, è innegabile che il nostro codice penale soffra di molti mali. Tuttavia, ad un esame spassionato, non sembra che esso condivida la sorte di quello civile, sebbene la ragione di ciò non possa ridursi alla sola presenza dell’art. 16 c.p., il quale peraltro, come noto, non solo ammette espressamente la possibilità che leggi future introducano deroghe ai principî codicistici, ma, evidentemente, non possiede alcuna cogenza costituzionale. In effetti, se è vero che esiste la tendenza a “decodificare” (id est: a disciplinare in modo diverso rispetto a quanto faccia il codice) gli stessi istituti della parte generale, nel tentativo di adattarli alle specificità che presenterebbero certi ambiti di intervento della pena (si pensi alla diversa declinazione che la giurisprudenza ha fatto della causalità nel settore della responsabilità penale da malattia professionale, ovvero alla colpa professionale in ambito sanitario), non è men vero che le deroghe presenti nel diritto penale complementare sono relativamente poche, quanto meno ove le si consideri in rapporto all’elevatissimo numero di disposizioni incriminatrici di cui si parla, il che, ovviamente, non significa che esse non esistano@.

 A tale ultimo riguardo, si pensi alle evidenti deviazioni dalla disciplina degli istituti di parte generale rappresentate, ad esempio, dalla parificazione quod poenam tra il tentativo e la consumazione del reato prevista dalla disciplina sanzionatoria in materia di contrabbando (v. l’art. 293, DPR 23 gennaio 1973, n. 43), ovvero dalla dilatazione della scriminante dell’uso legittimo delle armi riconosciuta a favore del personale addetto al servizio di frontiera o in zone di vigilanza doganale (v. l’art. 1, l. 4 marzo 1958, n. 100). Ma, stante il loro numero, è propriamente possibile parlare di eccezioni. Per questa ragione, la decodificazione penalistica non appare simmetrica e speculare a quella civilistica, poiché, mentre quest’ultima ha creato sottosistemi esterni dotati di autonomia disciplinare, quella penale risulta assai più edulcorata, per quanto marcata possa apparire dal punto di vista formale.

 

61 di 207


Sommario