Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta
3. La pubblicizzazione degli oggetti della tutela
3.1. Anche a prescindere dal criterio ordinatorio che governa la classificazione dei fatti costituenti reato, la parte speciale del codice Rocco offre ulteriori e ben più significative conferme dell’impronta autoritaria del regime fascista, che ne volle la nascita. Ciò – si badi – non sorprende affatto, poiché assai più della parte generale, è il catalogo dei reati contenuti nella parte speciale che rivela il livello di democraticità di un determinato sistema penale@. Infatti, essendo la parte speciale la tavola dei “disvalori” e del tariffario sanzionatorio cui vengono assoggettati i reati, essa è al contempo lo specchio dei valori fondamentali dell’ordinamento.
Dalla parte generale del codice Rocco, invece, non è possibile desumere con altrettanta immediatezza e univocità i condizionamenti derivanti dall’ideologia fascista. Invero, il ripristino della pena di morte, il mantenimento dell’ergastolo e il frequente ricorso alla responsabilità oggettiva, solo per citare alcuni istituti comunemente considerati come indicatori dell’impronta autoritaria del codice, pur essendo espressione di un diritto penale illiberale, vantavano all’epoca – in Italia come all’estero – un sostegno scientifico discutibile, ma condiviso. Si pensi, per esempio, alla convinzione di poter incrementare la funzione generalpreventiva, ricorrendo a pene terrorizzanti e, ad un tempo, svincolando l’imputazione del reato dal principio di colpevolezza; soluzioni, queste, che costituiscono ancora oggi tentazioni repressive costantemente in agguato.
3.2. L’autoritarismo del codice Rocco si coglie appieno soprattutto in altre e ben più significative caratteristiche della parte speciale.
Il riferimento è anzitutto al metodo casistico@, ossia alla moltiplicazione dei titoli di reato, ispirata dalla velleitaria pretesa di completezza normativa e frutto, a sua volta, di un’esasperazione della concezione positivistica del diritto, che sconfina in un autentico delirio di onnipotenza legislativa. In effetti, la parte speciale del codice Rocco esprime l’ambizione del legislatore a prevedere ogni possibile variante dei fatti di reato e a vincolare completamente il giudice attraverso l’allestimento di un ordito normativo minuzioso e dettagliato fino al parossismo. Sennonché, come dimostra l’esperienza, l’eccessiva frammentazione delle fattispecie, da un lato, crea inevitabili lacune di tutela, dall’altro lato, amplifica i problemi interpretativi connessi alle frequenti ipotesi di concorso apparente di norme. Non meraviglia, dunque, che l’impronta casistica della parte speciale del codice Rocco finisca di fatto per restituire all’interprete, seppure in altra forma e comunque in misura addirittura sproporzionata e disfunzionale, quella libertà interpretativa che si intendeva negargli.
In secondo luogo, e per quel che concerne ancora la tecnica di formulazione delle fattispecie incriminatrici, l’impronta autoritaria del codice Rocco si coglie agevolmente nella caduta di determinatezza degli enunciati normativi, riscontrabile segnatamente – anche se non esclusivamente – nell’ambito nei delitti contro la personalità dello Stato (si pensi all’art. 246), nel cui contesto la consapevole deroga al canone della determinatezza esprime l’intento legislativo di potenziare in chiave repressiva la discrezionalità giudiziale@.
E ancora: è certamente il portato di una concezione autoritaria, se non liberticida, della potestà punitiva la scelta legislativa di elevare a reato l’esercizio di autentici diritti di libertà. Si pensi, sempre con riguardo al volto originario del codice, al reato di accettazione di onorificenze (art. 275, abrogato dall’art. 18 l. n. 205 del 1999), alle diverse fattispecie di sciopero (art. 502 seg., in larga parte dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale) e all’incriminazione di autentiche manifestazioni di pensiero, come le condotte di disfattismo e vilipendio (artt. 265, 269, 279, 290, 291 e 292, materia, questa, oggetto di riforma ad opera della l. n. 85 del 2006, che ha abrogato gli artt. 269 e 279 c.p.).
3.3. Un particolare rilievo merita, infine, l’inclinazione del codice Rocco verso la marcata pubblicizzazione degli oggetti di tutela@. Quest’ultimo punto richiede attenzione, poiché, come si è detto, il primato dei beni giuridici superindividuali, se non può considerarsi una costante assoluta delle codificazioni penali moderne, è certamente ravvisabile nella gran parte di esse. Bisogna chiedersi, dunque, in che senso la pubblicizzazione dei beni giuridici è frutto di autoritarismo. Ebbene, per rispondere a questa domanda, va tenuto presente che, se per primato dei beni giuridici superindividuali si intende il mero dato della loro prevalenza numerica rispetto a quelli personali e privati, non si può dire che essa sia una caratteristica esclusiva del codice Rocco, né un connotato del suo carattere autoritario. Da questo punto di vista, anzi, la preminenza dei beni giuridici superindividuali potrebbe risultare una nota di sorprendente modernità del codice Rocco, nel senso che il codificatore del 1930 avrebbe saputo cogliere anzitempo la dimensione collettivistica di beni giuridici emergenti, come per l’appunto quello dell’economia pubblica, ulteriormente valorizzati dalla legislazione penale più recente. Diversamente, la pubblicizzazione dell’oggetto della tutela penale rivela le sue venature illiberali nelle ipotesi in cui taluni beni, aventi tradizionalmente una natura privata, vengono sottratti all’ambito di disponibilità dei singoli consociati per essere assoggettati all’incondizionata pretesa punitiva dello Stato.
3.4. Già da queste considerazioni si evince che con l’espressione “pubblicizzazione dei beni tutelati” si designa un fenomeno ben più vario e articolato di quanto non sembri a prima vista, e sul quale è opportuno soffermarsi ancora per alcune precisazioni.
In effetti, in una prima accezione di significato, la pubblicizzazione dei beni tutelati si coglie sul piano puramente simbolico@, nel senso che essa si esaurisce nella scelta classificatoria di collocare talune ipotesi delittuose nell’ambito di determinati raggruppamenti sistematici della parte speciale (titoli, capi o sezioni), accomunati da una intitolazione espressiva della loro unità categoriale. Si pensi alle fattispecie di aborto – come noto, oggi non più vigenti – che erano collocate agli artt. 545 s., all’interno del Titolo X, rubricato “Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe”. Un analogo rilievo vale per la disciplina dei delitti sessuali, che, nel disegno originario del codice Rocco, era contenuta nel Titolo IX, intitolato “Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume”, mentre oggi, a seguito della legge di riforma n. 66 del 1996, si trova opportunamente inserita nel Titolo XII (Sez. II del Capo III), dedicato ai delitti contro la persona.
Ebbene, se la scelta sistematica compiuta dal codice Rocco ha infranto la tradizione culturale che valorizzava la natura personale dei beni tutelati dalle fattispecie di aborto, annoverate dal codice Zanardelli tra i delitti contro la persona (artt. 381 seg.), lo stesso non può dirsi per la violenza sessuale prevista anche dal codice Zanardelli tra i delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie (Titolo VIII del Libro II).
Ad ogni modo, va tenuto presente che l’opzione classificatoria effettuata dal codice Rocco non ha impedito alla dottrina e alla giurisprudenza di continuare a considerare come personale il bene giuridico offeso dai reati anzidetti@, confermando la tendenziale autonomia di quest’ultimo dalla rubrica del titolo in cui figuravano le fattispecie poste a sua tutela.
3.5. Sennonché, non sempre la scelta classificatoria ha un valore esclusivamente simbolico. Da essa, infatti, possono discendere importanti implicazioni interpretative, tutte le volte in cui l’opzione sistematica consente o incoraggia il ricorso al canone dell’interpretazione sistematica.
Si pensi al reato di calunnia di cui all’art. 368. La sua collocazione tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia ha portato la dottrina e la giurisprudenza a esaltare la dimensione pubblicistica della tutela, con conseguente soffocamento dell’interesse privato facente capo alla persona ingiustamente incolpata. Non a caso, per opinione pacifica, il reato di calunnia sussiste per il solo fatto che, con la sua condotta, l’agente abbia creato il pericolo di mettere in moto la macchina giudiziaria; a prescindere, cioè, dalla sua idoneità a determinare una condanna del calunniato. Com’è evidente, in questo caso, la pubblicizzazione del bene giuridico, effettuata a livello sistematico, presenta ricadute applicative assolutamente significative.
Il più delle volte, infine, il fenomeno della pubblicizzazione del bene giuridico si coglie nella tecnica di costruzione della fattispecie destinata a tutelarlo o nel trattamento sanzionatorio cui essa è assoggettata. In effetti, in alcune ipotesi è agevole osservare che il bene tutelato viene sottratto alla sua naturale sfera di rilevanza individuale per essere proiettato in una dimensione di tutela dai marcati contorni collettivistici.
Un chiaro esempio di ciò era costituito, nel disegno originario del nostro codice penale, dai delitti contro il sentimento religioso, previsti agli artt. 402 s., nel Titolo IV, Capo I, significativamente rubricato “Dei delitti contro la religione dello Stato e i culti ammessi”. Come si evince dalla citata intitolazione, l’oggetto della tutela non risiedeva nel sentimento religioso di ciascun individuo, ma nella religione dello Stato e nei culti ammessi, intesi non come somma di beni facenti capo a singoli individui, bensì quale entità autonoma. La materia è stata riformata dalla citata l. n. 85 del 2006, che, mutando prospettiva di tutela, ha riscritto le fattispecie in questione ponendole a tutela delle confessioni religiose e dell’esercizio delle relative funzioni, previa modifica della rubrica del Capo I, oggi intitolata “Dei delitti contro le confessioni religiose”. Ebbene, nonostante la riforma, secondo parte della dottrina il sistema sarebbe ancora legato alla logica di una tutela della religione come bene giuridico caratterizzato da una dimensione culturale e collettiva non dissimile, nella logica di fondo, dalla visione che ne aveva il codificatore del 1930@.
Lo stesso si può dire in relazione ai delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, raccolti nel Titolo IX. Il fatto osceno, rilevante ai sensi dell’art. 527, è tipico in quanto contrario al comune sentimento del pudore; indipendentemente, cioè, dalla circostanza che taluno si sia sentito offeso in concreto.
E ancora. Nei delitti contro la fede pubblica, previsti nel Titolo VII, i fatti di reato tipizzati non si caratterizzano per il danno che essi causano in concreto, ma per il potenziale turbamento della certezza e della correttezza degli scambi.
3.6. Quanto al trattamento sanzionatorio, è agevole osservare come alla coloritura collettivistica del bene giuridico corrisponda un incremento della sanzione penale, tale da testimoniare il maggior disvalore che assume il fatto quando esso è offensivo di un interesse personale che viene inglobato in una cornice di tutela di tipo superindividuale.
Si pensi al reato di oltraggio individuale, prima abrogato dalla l. n. 205 del 1999 e poi ripristinato dalla l. n. 94 del 2009 (art. 341-bis c.p.), dove alla dimensione pubblicistica dell’offesa al pubblico ufficiale si collega una sanzione considerevolmente più elevata di quella prevista per il delitto di ingiuria (art. 594 c.p.), per converso depenalizzato dal d.lgs. n. 7 del 2016.
Ma un analogo e sproporzionato rafforzamento della tutela penale si può riscontrare in altre fattispecie tuttora operative, come ad esempio i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale (artt. 336 seg. c.p.), il cui disvalore è considerato maggiore rispetto a quello proprio dei reati di percosse (art. 581 c.p.), minaccia (art. 612 c.p.) e violenza privata (art. 610 c.p.), offensivi di soli beni personali.
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