Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta
8. Le (pretese) dinamiche (dis)applicative
8.1. Le ragioni di un approccio contenitivo del diritto dell’UE, ossia rispettoso della cultura garantistica e personalistica di cui è intriso del diritto penale, sono sfuggite talvolta alla nostra giurisprudenza.
Tra i punti di emersione del fenomeno, vi è quello della disapplicazione (v. supra, cap. V, § 9). Si è ritenuto, infatti, che tale potere possa riguardare un singolo elemento delimitativo del fatto tipico o una disciplina penale favorevole, con la conseguenza di rendere operante nei confronti del cittadino una fattispecie penale (di risulta) più ampia di quella vigente al momento della sua condotta e senza che ciò determini la caducazione della norma disapplicata, che rimane vigente e suscettibile di una differente operatività ad opera di altri giudici.
8.2. La casistica delle ritenute ricadute penali, essendo nota, sarà qui ricordata in estrema sintesi, limitando l’attenzione a quelle vicende che hanno avuto un esito applicativo, anche parziale e temporaneo, degno di rilievo in chiave eurounitaria, e con esclusione invece dei casi in cui i tentativi, compiuti dai nostri giudici nazionali, di nullificare riforme penali ritenute lassiste, si sono rivelati velleitari. Si pensi alla vicenda delle false comunicazioni sociali, nella versione risultante a seguito del d.lgs. n. 61 del 2002, che si voleva illegittima per asserita violazione dell’obbligo europeo di tutela della trasparenza societaria. La Corte di giustizia (Grande Sezione, 3 maggio 2005, C-387/02, C-391/02, C-403/02, in Cass. pen., 2005, p. 2764), deludendo una nutrita claque di eurotifosi, ha escluso che una direttiva comunitaria possa determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni, senza una legge dello Stato membro che la recepisca.
8.3. La nozione di rifiuto, sulla quale ruota gran parte della normativa ambientale di derivazione europea, è notoriamente sfuggente, affidando la sua identità non alle intrinseche caratteristiche sostanziali della materia, ma alla sua destinazione. Ciò che fa il rifiuto è la volontà o l’obbligo di disfarsi dei prodotti ovvero ancora più semplicemente il fatto stesso di disfarsene.
Ciò detto, va ricordato che la nostra giurisprudenza aveva scartato la possibilità di definire in via interpretativa il c.d. sottoprodotto, ossia i residui della lavorazione aventi valore economico e reimpiegati nello stesso ciclo produttivo. Per venire incontro al mondo imprenditoriale, il nostro legislatore ritenne opportuno positivizzare la nozione di sottoprodotto (art. 14 d.l. n. 138 del 2002), tipizzandola in termini generali e astratti sulla base dei requisiti distillati dalla giurisprudenza prevalente della Corte di giustizia, previa la razionalizzazione della stessa, a volte ondivaga e incoerente. L’obiettivo perseguito era quello di sburocratizzare la materia, sottraendo il sottoprodotto alla fitta rete degli obblighi autorizzativi previsti finanche per la movimentazione dei rifiuti.
Sollecitata a intervenire dal giudice nazionale con domanda pregiudiziale ex art. 234 CE, la Corte di giustizia, con la sentenza Niselli dell’11 novembre 2004 (C-457/02), ha dichiarato in contrasto con il diritto dell’UE (all’epoca comunitario) la nozione italiana di sottoprodotto con l’effetto di autorizzarne la disapplicazione, quale elemento delimitativo di molteplici fattispecie penali ambientali. Tutto ciò, inaudita la Corte costituzionale. Così facendo, si è ritenuto tipico un comportamento che al tempo della condotta era lecito, perché conforme al diritto interno; soluzione, questa, che una parte della giurisprudenza di legittimità aveva adottato prima ancora della pronuncia della Corte di Giustizia@.
Come noto, oggi la nozione di sottoprodotto è stata tipizzata dal diritto di derivazione eurounitaria (art. 184-bis d.lgs. n. 152 del 2006) in termini nel complesso non dissimili a quelli cassati dalla sentenza Niselli.
8.3. A dir poco stravagante è la vicenda della pesca del c.d. novellame, ossia del pesce sottomisura, fino a non molto tempo fa vietata da una fattispecie contravvenzionale (artt. 15 e 24 l. 963 del 1965), la cui operatività risultava tuttavia ristretta da un regolamento nazionale (suscettibile di essere considerato quale elemento negativo del fatto tipico o come parametro integratore dell’esercizio del diritto scriminante ex art. 51 c.p.), con l’effetto di escludere la responsabilità nella misura in cui il “novellame” non superasse il 10% del pescato (art. 91 d.p.r. n. 1639 del 1968).
La Corte di cassazione, con un grappolo di pronunce@, ha avallato la linea dei giudici di merito. Questi ultimi, fattisi diretti interpreti del divieto di pesca e commercializzazione del “novellame”, contenuto nel Reg. CE 17 giugno 1994, n. 1626, a sua volta inteso in senso assoluto, e lasciando inaudita la Consulta, avevano disapplicato in malam partem il limite escludente la fattispecie, condannando l’imputato per un fatto, all’epoca della sua realizzazione, conforme all’ordinamento interno@.
Anche qui il seguito della storia non consola, ma semmai indispettisce: la pesca del “novellame” è stata oggi depenalizzata (l. n. 154 del 2016).
8.4. Sul caso Taricco è stato scritto molto, forse anche troppo, con toni giustamente preoccupati per la tenuta garantistica del principio di legalità di fronte a un euroentusiasmo meritevole di miglior causa. Per quel che più interessa, il giudice penale nazionale aveva sollecitato il pronunciamento della Corte di giustizia sulla nostra disciplina della prescrizione, la quale, stante la sua verosimile applicazione nel caso di specie per l’eccessiva durata delle indagini preliminari, veniva ritenuta ostativa della condanna degli imputati per reati tributari e in contrasto dell’interesse a riscuotere la (per il vero minima) quota dell’IVA di spettanza eurounitaria (Trib. Cuneo, ord. 17 gennaio 2014, GUP dott. Alberto Boetti).
Ebbene, in un primo tempo, i Giudici di Lussemburgo, facendo leva sull’obbligo di tutela del gettito fiscale eurounitario ai sensi dell’art. 325, §§ 1 e 2, Tfue, avevano aperto alla disapplicazione delle cause di interruzione della prescrizione ex artt. 160, comma 3, e 161, comma 2, c.p. (sent. 8 settembre 2015, Grande Sezione, causa C-105/14), trascinandosi dietro un intempestivo e maldestro allineamento della nostra Corte di cassazione (Cass. pen., sez. III, 17 settembre 2015, n. 2210, in Ced 266121).
La fine della storia è nota. Chiamata a chiarimenti con rinvio pregiudiziale dalla nostra Corte costituzionale (ord. 24/2017), la Corte di giustizia ha dovuto fare marcia indietro come se nulla fosse (sent. 5 dicembre 2017, Grande Sezione, causa C-42/17); così facendo, si è potuta perpetuare la raffigurazione idealizzata ed edulcorata delle Corti che si abbracciano.
Ma fino a un certo punto. Il ripensamento dei Giudici europei, infatti, non ha impedito alla Consulta di ribadire che il principio di legalità, comprensivo della testualità del diritto e dunque della riserva di legge, costituisce un controlimite fondamentale; un freno a mano di uso eccezionale, che in casi estremi la Corte costituzionale si è dichiarata pronta ad azionare.
La pronuncia n. 115/2018 della Corte costituzionale riveste pertanto un’importanza storica@, che sopravanza, di gran lunga, la specifica e stravagante questione che l’ha occasionata. Il suo core business non sta nel decisum, ma nelle ragioni per le quali la “regola Taricco” non poteva trovare applicazione nel nostro ordinamento, nemmeno in nome del primato del diritto dell’UE.
Da qui la declaratio del nostro paradigma giuridico-penale. Non si tratta – sia chiaro – di un rigurgito di sovranismo. Le precisazioni della Consulta guardano al futuro dell’Europa come istituzione politica, ma nel rispetto della cultura penalistica europea, con specifico riguardo ai paesi di tradizione continentale. Del resto, il rispetto dell’identità costituzionale degli Stati membri – ricorda la Consulta – non è affatto estraneo al diritto dell’Unione.
Per quanto concerne l’Italia, ciò significa che le scelte politico-criminali devono incarnarsi in testi legislativi. La lex scripta costituisce il prius logico e cronologico dell’interpretazione, quale scelta circoscritta ai significati autorizzati dal testo.
Quanto basta per togliere ogni legittimazione al giudice di scopo, nazionalista o europeista che sia.
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