Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta
8. La colpevolezza
di Gianfranco Martiello
8.1. L’adeguamento interpretativo ai principi costituzionali riguarda anche il principio di colpevolezza affermato all’art. 27, comma 1. Per opinione condivisa, il principio di colpevolezza richiede che tutti gli elementi costitutivi del reato siano investiti dal dolo o almeno dalla colpa, risultando così “rimproverabili” all’agente. Similmente a quanto si sostiene per altri principi costituzionali in materia penale, anche quello di colpevolezza impone all’operatore di interpretare le fattispecie penali sì da pretendere l’esistenza del suddetto collegamento soggettivo tra il reo e gli elementi essenziali della fattispecie penale.
8.2. Un primo ed ormai “classico” terreno di innesto di tale principio è costituito da quelle ipotesi nelle quali, posta in essere una condotta dolosa penalmente rilevante, al suo autore viene imputato anche l’evento più grave da lui causato, ma non voluto@. Per scongiurare la sopravvivenza del canone del versari in re illicita, gli orientamenti più sensibili al principio di colpevolezza hanno concluso che, per l’ascrizione dell’evento aggravatore, fosse necessaria una d. «culpa in re illicita». Sennonché, questa «culpa», proprio perché «in re illicita», non pare completamente sovrapponibile a quella “ordinaria” tipica dell’attività ab initio lecita. Se, difatti, ai sensi dell’art. 43 c.p. la colpa si struttura anzitutto come violazione del dovere oggettivo di diligenza (c.d. «misura oggettiva della colpa»), risulta evidente come un tale schema non possa applicarsi ad una condotta già in sé penalmente illecita, rispetto alla quale la prospettazione di norme cautelari appare logicamente contraddittoria. A ben vedere, la penetrazione del principio di colpevolezza sortisce effetti meno significativi di quel che sembra, perché fondati sulla semplice «prevedibilità-evitabilità» dell’evento più grave.
A tale riguardo, un utile banco di prova è costituito, anzitutto, dal disposto dell’art. 586 c.p. applicato in materia di responsabilità dello spacciatore per la morte del tossicodipendente a cui ha fornito lo stupefacente. Secondo tale disposizione quando la morte è conseguenza «non voluta» di un altro reato, di essa risponde ugualmente l’autore del precedente delitto. Ciò che non è chiaro è se la responsabilità per l’evento più grave si fondi sul semplice nesso causale oppure su una parvenza di colpa, stante il carattere illecito della condotta di base incompatibile con la violazione di regole cautelari dotate di una finalità preventiva che non fosse già assorbita nel divieto di spaccio.
Ebbene, un’importante pronuncia di legittimità, in nome del principio di colpevolezza, ha stabilito che, nel caso di specie, l’evento morte dovesse imputarsi sulla base di un concetto di colpa parametrato sul modello dell’«individuo medio e razionale posto nella medesima situazione in cui si è trovato l’agente reale». Se ne è tratta la conclusione che la responsabilità dello spacciatore dovrebbe negarsi laddove la morte della vittima sopravvenga «per effetto di fattori non noti o non rappresentabili dal cedente», quali, ad esempio, la contemporanea ingestione di alcool o di psicofarmaci, l’ulteriore cessione ad un terzo con un ridotto grado di tolleranza, la repentina ingestione di una grande quantità di stupefacenti a seguito dell’intervento delle forze dell’ordine, e via dicendo@.
8.3. Un altro caso di interesse è rappresentato dall’art. 116 c.p., che disciplina il caso in cui il reato commesso da taluno dei concorrenti risulti diverso (più grave) da quello concordato. In tale evenienza – dispone l’art. 116 c.p. – di esso risponderanno anche gli altri compartecipi. Orbene, non v’è dubbio che l’istituto richiamasse il canone del versari in re illicita, tanto che già in uno dei suoi primi interventi la Consulta precisò come l’art. 116 c.p. dovesse interpretarsi nel senso che, per imputarsi anche agli altri concorrenti, il reato diverso o più grave avrebbe dovuto «rappresentarsi nella psiche dell’agente come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto»@. Sebbene scongiurata la responsabilità oggettiva, resta l’anomalia, tuttora irrisolta, di un reato colposo che viene punito a titolo di dolo.
8.4. L’affermazione del principio di colpevolezza è tutt’altro che piena, anche perché i suoi deficit sono genetici e, come tali, difficili da colmare in via interpretativa.
Si pensi all’art. 117 c.p., secondo il quale in caso di mutamento del titolo del reato in virtù della qualifica del soggetto intraneo, il compartecipe extraneus continua a rispondere di concorso nel reato proprio a prescindere dal fatto che egli conoscesse o meno la qualifica dell’intraneus, il che deroga ai principi generali in materia di dolo, dato che l’imputazione del contributo concorsuale permane ope legis dolosa.
Il principio di colpevolezza fatica ad imporsi anche nell’ambito della preterintenzione (ad es.: art. 584 c.p.), dell’aberratio ictus bioffensiva (art. 82 c.p.), dell’aberratio delicti monolesiva (art. 83 c.p.) o della responsabilità del direttore, dell’editore o dello stampatore nel caso di reati commessi a mezzo della stampa (artt. 57 ss. c.p.): ipotesi, tutte queste, nelle quali la non decisività del dato normativo, da un lato, e una certa ritrosia culturale all’accettazione del garantismo costituzionale in favore di ragioni repressive e general-preventive, dall’altro, ancora consentono alla responsabilità oggettiva, o a forme di responsabilità penale “anomala”, di vegetare nel sistema.
E ciò per non dire di quelle non poche ipotesi nelle quali, a prescindere dal maggiore o minore tasso di ambiguità del dato normativo, la prassi continua di fatto ad impiegare il meccanismo imputativo del versari in re illicita paludandolo sotto altre vesti, tanto che, con felice espressione, si parla in dottrina di responsabilità oggettiva «occulta». Si pensi a tutte le volte nelle quali la colpa generica risulta parametrata su di un agente modello – spesso costruito ex post factum – che assume le sembianze del vir diligentissimus che “tutto vede, tutto prevede e tutto evita”, ed ogniqualvolta si cancella di fatto la componente volitiva del dolo, o applicando il teorema processuale del “non poteva non sapere”, ovvero ritenendo che il titolare di una data posizione di garanzia concorra omissivamente nel reato altrui solo perché egli non avrebbe colto quei «segnali d’allarme» che gli avrebbero dovuto rappresentare alla mente la commissione dell’illecito penale, e via discorrendo.
8.5. Non meno difficoltoso appare l’innesto del principio di colpevolezza anche in ambiti diversi da quello dell’ascrizione dell’evento non voluto, del quale si è detto sin qui.
Si pensi, in questa prospettiva, al tema dell’imputabilità, e quindi all’accertamento della sussistenza o meno della «capacità di intendere e di volere». Una concezione rigorosamente personalistica della responsabilità penale dovrebbe infatti caratterizzarsi, nel perimetrare i confini dell’imputabilità, per un costante riferimento a componenti fattuali e naturalistiche attinenti alla psiche del reo, da ritenere esistenti al momento della commissione del fatto e da accertare in concreto. Anche prescindendo dai casi nei quali è lo stesso legislatore ad avere limitato in materia l’operatività del principio di colpevolezza, prevedendo ipotesi nelle quali la imputabilità viene ribadita nonostante che al momento del fatto l’agente potesse non avere la reale capacità di intendere e di volere (si pensi ai casi di c.d. «pre-colpevolezza» degli artt. 87, 92, 93 o a quello dell’art. 90 c.p.), uno sguardo alla prassi mostra come non raramente nel giudizio di imputabilità rifluisca di fatto anche l’esigenza di contemperare le istanze di garanzia con quelle della prevenzione. Il che avviene, segnatamente, attribuendo rilevanza anche a componenti valutative che, essendo previamente passate da un processo di oggettivazione e standardizzazione, si pongono in contrasto con il pieno riconoscimento del principio di colpevolezza individuale, portando ad una sorta di paradossale “spersonalizzazione” dell’imputabilità. Si pensi ad esempio a quella prevalente giurisprudenza che esclude di principio la rilevanza delle psicopatie, delle nevrosi e di tutta una serie di anomalie psichiche che non si risolvano in una malattia psichiatrica in senso stretto, sebbene in molti casi esse possono di fatto risultare idonee ad escludere o attenuare la capacità di intendere il disvalore del fatto, oppure a quei non pochi processi nei quali il giudice appiattisce la propria decisione circa la sussistenza della capacità di intendere e di volere su cliché delle neuroscienze, rinunciando ad ulteriori ed individualizzanti riscontri in ragione della specificità del caso concreto (c.d. «prova inferenziale»).
8.6. Il principio di colpevolezza dovrebbe infine giocare un ruolo non certo secondario anche nella fase di irrogazione della Sebbene il concetto di colpevolezza risulti storicamente complementare anzitutto alla funzione retributiva della pena, rispetto alla quale esso fungerebbe da irrinunciabile parametro commisurativo, appare ormai acquisito il fatto che pure laddove si ritenga la pena orientata principalmente a scopi preventivi, non per questo il principio di colpevolezza rimarrebbe silente. Rileggendo le categorie del reato dall’angolo visuale della loro funzione politico-criminale, infatti, la dottrina ha chiarito come la colpevolezza non solo abbia un ruolo «fondante» della responsabilità penale, consentendo l’ascrizione del fatto al suo autore materiale in presenza di un determinato nesso psicologico, ma svolga anche una funzione «limitativa» della sanzione penale nel momento della sua commisurazione, tanto più ove alla pena venga riconosciuto uno scopo general-preventivo negativo. In quest’ultima prospettiva teleologica, infatti, la colpevolezza dovrebbe impedire che il singolo reo venga per così dire “strumentalizzato” dal giudice per dissuadere gli altri consociati dal crimine, evitando segnatamente che a questi venga pretestuosamente irrogata una pena “esemplare”, piuttosto che una pena proporzionata al reale disvalore oggettivo e soggettivo del fatto commesso. Invero, non è difficile rendersi conto come, nel primo caso, il quantum di pena eccedente risulterebbe comminato al reo secondo una logica sostanzialmente non molto dissimile da quella sottostante alla responsabilità oggettiva, considerato che ciò che il giudice valuterebbe in modo preponderante non sarebbe più la gravità della condotta intrapresa dal reo che ha di fronte, bensì l’appartenenza del reo a quella stessa comunità alla quale si intenderebbe inviare il messaggio dissuasivo, rispetto al quale il fatto giudicato costituirebbe una mera «occasio».
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