Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta
6. La scelta interpretativa e i principi: l’offensività
di Gianfranco Martiello
6.1. Il «principio di necessaria offensività» (nullum crimen sine iniuria) presenta, storicamente, un duplice contenuto precettivo. Da un canto, e saldandosi con la teoria del bene giuridico costituzionalmente orientato, esso si propone quale vincolo de iure condendo all’opera di poiesi normativa, imponendo al legislatore di confezionare fattispecie incriminatrici che, sul piano strutturale, rechino fatti offensivi di beni giuridici ben identificabili e rilevanti sul piano socio-costituzionale (c.d. «offensività in astratto»). Dall’altro, esso si pone quale limite de iure condito all’applicazione delle fattispecie incriminatrici, prescrivendo al giudice di accertare segnatamente che il fatto storico, così come presentatosi nella realtà, risulti in concreto offensivo del bene protetto dalla fattispecie astratta di reato, pena la sua a-tipicità (c.d. «offensività in concreto»).
Ed è proprio quest’ultimo il profilo che in questa sede segnatamente rileva, nell’unitaria premessa, tuttavia, che, comunque lo si intenda, il principio di offensività presenta un forte radicamento sia logico- razionale che normativo-costituzionale. Ed invero, ove si muova dalla constatazione che la pena di norma attinge il bene fondamentale della libertà personale, è ragionevole concludere che, per un’intuitiva esigenza di proporzione, il fatto che la determina debba essere realmente offensivo di un valore altrettanto importante; d’altro canto, di una pena che tende a «rieducare» il condannato sarebbe difficile parlare ove essa venisse inflitta a chi nei fatti non ha violato alcun valore penalmente protetto, al quale essere perciò rieducato; ben si comprende, infine, che ove si sanzionasse una condotta rivelatasi in concreto inoffensiva, si finirebbe sostanzialmente per punire la mera «volontà» del reo di produrre un certo risultato lesivo, e non già, propriamente, un «fatto»: logiche, queste, che non è difficile scorgere nella congiunta lettura degli artt. 13, comma 1, 25, comma 2 e 27, comma 3, Cost.@.
6.2. Nonostante la sua fondazione costituzionale, il principio di offensività stenta ad affermarsi nella pratica applicazione della parte speciale del diritto penale, la quale, come si sarà già compreso, dovrebbe invece costituire il campo d’azione elettivo di siffatto canone: quest’ultimo, difatti, pur solitamente tematizzato nella «Parte generale», vive poi operativamente del confronto tra il «fatto storico», che emerge dalla concreta vicenda giudiziaria, ed il «fatto tipico» codificato dalle singole fattispecie incriminatrici di «Parte speciale» che vengono di volta in volta in rilievo.
Ed invero, uno sguardo ai repertori giurisprudenziali mostra l’esistenza quantomeno di due tendenze interpretative che chiaramente confliggono con l’attuazione del canone di offensività, quando addirittura – e paradossalmente – non ne stravolgono l’orientamento finalistico.
A tale riguardo, occorre in primo luogo prendere atto dell’esistenza di una significativa tendenza della giurisprudenza, manifestatasi in alcuni settori, ad un certo formalistico «testualismo» interpretativo. Così, ad esempio, una parte della prassi applicativa sostiene che, allorquando gli artifizi ed i raggiri posti in essere dal reo abbiano ottenuto il rilascio, da parte della vittima, di un titolo di credito, la truffa si consumi non appena quest’ultimo sia transitato dalla sfera di disponibilità del proprietario a quella del soggetto attivo, evidentemente così ritenendo che il «danno» (patrimoniale) a cui si riferisce l’art. 640 c.p. si realizzi – ma lo è solo formalisticamente parlando – con lo spossessamento del titolo, e non già – sostanzialmente – nel momento e nel luogo in cui il titolo verrà posto all’incasso. Non poche sono poi le pronunce che, con riferimento a figure di reato incentrate sulla violazione di un obbligo di autorizzazione preventiva della P.A., tipiche della materia edilizia e paesaggistica, hanno più volte ribadito che, in ossequio alla natura di fattispecie di pericolo astratto che esse formalmente posseggono, la responsabilità penale si attiverebbe con la semplice inosservanza del precetto, la quale produrrebbe una sorta di “offesa in re ipsa”, ritenendosi del tutto irrilevante qualsivoglia accertamento volto a verificare l’effettiva ed apprezzabile lesione del territorio o del paesaggio eventualmente arrecata dall’opus sine titulo.
In secondo luogo, non sono mancati casi nei quali, conscia dell’opinabilità che talvolta contraddistingue l’opera di identificazione del bene giuridico, la giurisprudenza ha ribaltato il funzionamento del canone di offensività. Il riferimento è all’uso strumentale che una certa prassi applicativa ha fatto della categoria del reato plurioffensivo, della quale non solo è stata spesso ampliata in modo artificioso la rilevanza pratica, e ciò essenzialmente mediante la fittizia proliferazione ermeneutica delle oggettività giuridiche ricollegabili alla sfera di tutela di certe fattispecie, ma viepiù è stato distorto l’intrinseco significato offensivo, ritenendo che per l’integrazione delle fattispecie criminose di tal fatta fosse sufficiente l’offesa portata anche solo ad uno dei beni da esse tutelati. Paradigmatica, in tal senso, si è rivelata, ad esempio, la vicenda applicativa del delitto di false comunicazioni sociali dell’originario art. 2621, comma 1, n. 1, c.c., che parte della giurisprudenza ha ritenuto posto a salvaguardia di un così ampio ed eterogeneo ventaglio di interessi, ognuno considerato come autonomamente rilevante (trasparenza dei bilanci, interesse economico dei creditori, dei soci e dei futuri investitori, ragioni fiscali dello Stato, ecc.), da renderne praticamente automatica l’applicazione in presenza di una qualsiasi forma e specie di mendacio societario, e ciò – paradossalmente – con il complice “avallo” del canone di offensività.
Nonostante queste indubbie refrattarietà, non mancano casi nei quali, al contrario, del principio in parola la giurisprudenza ha fatto buon uso, utilizzandolo propriamente quale canone ermeneutico restrittivo della tipicità penale. Così, ad esempio, una consolidata prassi applicativa sostiene che l’offerta in vendita di sostanze che, pur rientrando nell’elenco di quelle formalmente considerate come «stupefacenti», tuttavia non contengano in concreto una quantità di principio attivo tale da produrre il fisiologico effetto psicotropo, non costituisca reato ai sensi dell’art. 73 d.p.r. n. 309 del 1990. Ad analoghe conclusioni giunge la prassi applicativa nel caso del c.d. «falso grossolano», che ad esempio è stato rinvenuto nella contraffazione di cartamoneta, testualmente punita dall’art. 453 c.p., rivelatasi però così maldestra da risultare riconoscibile ictu oculi da chiunque, sì da potersi ritenere del tutto inidonea a sorprendere la buona fede del pubblico. Sulla stessa linea interpretativa si collocano, infine, sia quelle pronunce che ritengono inapplicabile il delitto di calunnia ai casi di c.d. «denuncia inverosimile e assurda», ritenuta inidonea ad attivare (a vuoto) l’apparato giudiziario, e quindi a pregiudicare il bene tutelato dall’art. 369 c.p., sia quegli arresti giurisprudenziali che ritengono inapplicabile il reato ex art. 372 c.p. a quelle testimonianze mendaci aventi ad oggetto, però, fatti o circostanze estranei al thema probandum o del tutto insignificanti ai fini del decidere, come tali prive della capacità di fuorviare il magistrato giudicante.
6.3. In linea di principio, il canone interpretativo di «offensività» si distingue da quello di «esiguità» (Geringfügigkeitprinzip), che valuta non già la presenza o l’assenza in concreto dell’offesa al bene giuridico, bensì il quantum di essa presente nel fatto materiale tipico@. Ben si comprende, infatti, come un conto è un fatto materiale che risulta del tutto inoffensivo del bene tutelato, e che quindi deve valutarsi come a-tipico ai sensi della fattispecie incriminatrice applicabile; un altro conto è invece un fatto che, pur risultando materialmente offensivo dell’interesse protetto, e perciò tipico al cospetto della figura criminosa conferente, reca al bene tutelato un’offesa di entità così ridotta da potere essere dispensato dalla pena, anche in considerazione del rapporto tra costi (per l’apparato repressivo, per il reo e per la stessa vittima) e benefici (per la vittima), in accordo, peraltro, all’adagio per cui «minima non curat praetor». Ne dovrebbe risultare, nel primo caso, la presa d’atto dell’insussistenza del fatto di reato e, nel secondo, la dichiarazione di non punibilità per ragioni di “opportunità”, con le note conseguenze sia in termini di tipologia di sentenza assolutoria da emettere, sia in punto di effetti extrapenali producibili dal giudicato penale ai sensi degli 651 ss. c.p.p.
La limpidezza teorica di tale distinzione tende tuttavia ad intorbidirsi allorquando si guardi alle non poche clausole normative per mezzo delle quali il legislatore ha nel tempo inteso elevare a criterio interpretativo espresso il canone dell’offensività in concreto, intesa come “tenuità”. Così, ad esempio, l’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 consente al Giudice di Pace di dichiarare il reato improcedibile ove il fatto risulti di «particolare tenuità», e ciò precipuamente allorquando, «rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale». A sua volta, l’art. 27 del d.p.r. n. 488 del 1988 permette al giudice minorile di pronunciare sentenza di non luogo a procedere per «irrilevanza del fatto» ove questi ritenga «la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento». Da parte propria, ed in materia di falso societario, l’art. 2621-ter c.c. consente al giudice di dichiarare la «non punibilità per particolare tenuità del fatto», valutando però «in modo prevalente, l’entità dell’eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori conseguente ai fatti di cui agli artt. 2621 e 2621-bis». Più in generale, l’art. 131-bis c.p. dispone che «nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, comma 1, anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale».
Appare evidente come tali clausole, sebbene convergenti nel sottrarre alla pena i fatti «tenui», risultino tra loro contenutisticamente disomogenee quanto ai criteri in base ai quali tale carattere del fatto dovrebbe essere individuato, quanto allo specifico titolo giuridico in virtù del quale l’esenzione dalla pena dovrebbe essere dichiarata, e quanto alla parte del fatto normativo materializzatosi nella realtà – in verità spesso commisto anche ad elementi di pretta natura soggettiva – alla quale il giudice dovrebbe guardare ai fini della predetta valutazione di tenuità. Invero, l’impressione è che, nel confezionare le suddette clausole, il legislatore ne abbia più che altro valorizzato la funzione deflattiva, che appare dominante, piuttosto che porsi problemi di loro inquadramento teorico. Non è infatti un caso che la dottrina e la giurisprudenza che di tali clausole si sono occupate più da vicino quasi mai giustificano l’esenzione del fatto «tenue» dalla pena in termini di a-tipicità dello stesso, preferendo piuttosto ricorrere alla più elastica categoria delle “cause (sopravvenute) di non punibilità”, ovvero affidarsi agli istituti processuali che inibiscono la procedibilità dell’azione penale o la prosecuzione del processo: soluzioni, queste, spesso imposte dal dato normativo, ma che, a ben vedere, confermano la non perfetta sovrapponibilità tra la categoria della «offensività» e quella della «tenuità».
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