testi ed ipertesti

Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta

2. Retribuire e prevenire

 

 2.1. Il meccanismo punitivo si presta a molteplici chiavi di lettura, solo in apparenza semplici.

 Tra queste, una delle più risalenti fa leva sulla “giustizia” della pena, desunta dalla proporzione tra la sua entità e la gravità del reato, in modo che al disvalore dell’illecito corrisponda il valore della pena. Non può certo sfuggire il senso profondo dell’affermazione: l’afflizione del colpevole realizzerebbe prima ancora dell’utile, il bene e il giusto sociali. Si parla al riguardo di retribuzione. L’impronta etica di questa impostazione è evidente. Problematica è la sua attuazione pratica. Il discorso si mantiene lineare fintantoché il fatto retribuito e la reazione retributiva sono simili. Non a caso una delle più antiche formulazioni del principio è quella biblica: occhio per occhio, dente per dente. In effetti, la legge del taglione, immediatamente eseguita, parrebbe assicurare una qual certa equivalenza tra reato e pena, ma al prezzo dell’equiparazione tra Stato e reo (il male inflitto dal giudice sarebbe identico a quello per cui si punisce) e con il rischio dell’ingiustizia (se la pena tardiva è iniqua di per sé, quella tempestiva potrebbe esserlo per la sommarietà del giudizio). Non va trascurato il fattore “tempo” che separa il reato, di regola istantaneo, e la pena quale sanzione perlopiù di durata. Il contesto sociale e quello valoriale possono mutare dopo la commissione del reato. Il tempo necessario per la scoperta e l’accertamento del reato cambia situazioni, contesti e persone, annacqua la percezione del fatto e il ricordo dei testimoni; favorendo la cicatrizzazione spontanea del conflitto, frustra la funzione punitiva. Anche la retribuzione perfetta (la fucilazione del reo confesso che ha ucciso con un’arma da fuoco) risulterebbe iniqua per il colpevole. La consapevolezza della morte imminente vanifica il dono di Prometeo, che ce ne spense la vista. L’attesa dell’esecuzione è motivo di sofferenza aggiuntiva e, specie se lunga, risulta una pena ben più severa della stessa morte: come infliggere due volte la morte a chi ha ucciso una volta sola@.

 In breve: l’esatta correlazione tra reato e pena è un’aspirazione metafisica, perché presuppone colpevolezze evidenti e una umanità immobile, al pari del suo contesto sociale. La concezione retributiva allinea reato e pena lungo un orizzonte atemporale, una sorta di buco nero giuridico nel quale azione e reazione possono finalmente combaciare. Ma nella realtà è diverso; il decorso della storia deforma l’ambita simmetria compensativa, rendendola illusoria. Particolarmente difficile è mettere in equilibrio entità tra loro eterogenee. Solo per fare un esempio, si pensi all’evasione fiscale, quale condotta offensiva dell’interesse dello Stato al gettito fiscale, punita con la pena detentiva. Proporzione e giustizia della pena possono misurarsi solo in modo approssimativo.

 2.2. Per l’opinione attualmente maggioritaria la pena svolge una funzione preventiva. Si tratta di un’impostazione pragmatica e utilitaristica. Alla visione retrospettiva della retribuzione si sostituisce quella ex ante. La pena comminata, vale a dire prevista in astratto dal legislatore, mirerebbe a dissuadere dalla commissione dei reati. La pena da valore diventa funzione, si trasforma da significato finale a mezzo. “Solo la pena necessaria è giusta”@.

 La logica della prevenzione è connaturata alla secolarizzazione della giustizia. Si allenta la soggezione del diritto penale alla legge morale. La politica criminale diventa protagonista. Nasce una nuova parola d’ordine: il diritto penale come forma di protezione. Gli strumenti, però, sono sempre gli stessi, divieti e afflizioni, i mali minori da maneggiare con professionalità. In questa prospettiva la sanzione è chiamata a dimostrare l’utilità dei suoi servigi, la prevalenza dei benefici offerti sui costi prodotti. L’approccio diventa empirico, ma nemmeno l’efficacia dello strumento è misurabile con precisione. Rimangono incerti anche i criteri per individuare la tipologia punitiva più adeguata. La deterrenza può essere solo supposta. Il discorso non può che svilupparsi sul piano della plausibilità e della verosimiglianza. Ne esce una scienza zoppa, l’unica possibile. Nel dubbio dovrebbe preferirsi la prudenza punitiva. Spesso, però, legislatori e giudici sono portati ad eccedere: melius adbundare quam deficere.

 Per evitare l’escalation incontrollata della risposta punitiva, si ritiene che la prevenzione non debba superare, nella fase della comminazione edittale, l’entità della retribuzione e in quella della irrogazione, ossia dell’applicazione in concreto ad opera del giudice, la misura della colpevolezza individuale. Ancora una volta si pretende di rapportare su carta millimetrata entità incommensurabili. Anche la colpevolezza sfugge a una misurazione attendibile. Ne risentono in generale i limiti garantistici di natura sostanziale. Ciò spiega la preferenza per i criteri di delimitazione formali.

 

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