testi ed ipertesti

Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta

3. Lex scripta

 

 3.1. La legalità penale è un concetto intuitivo. Difficile spiegarlo meglio di come lo enunciano, con immediatezza, i codici penali e le Costituzioni che lo elevano a principio fondamentale (da noi gli artt. 1 c.p. e 25, comma 2, Cost.).

 Il linguaggio – l’altra faccia del sociale – ha conquistato da millenni la dimensione della scrittura. Perché non utilizzarla anche per individuare i fatti di reato e stabilire le rispettive cornici sanzionatorie?

 Da qui il brocardo, di origine ottocentesca, nullum crimen, nulla poena, sine lege, comprensivo della precisazione che la legge deve essere innanzitutto scripta, ma anche praevia e stricta, ossia vigente prima del fatto e determinata nei contenuti. Solo la disposizione che precede l’agire e precisa in modo rigoroso il divieto può orientare il comportamento umano e può definire, ad un tempo, il potere punitivo nelle mani del giudice. In questo senso, nemo iudex sine lege.

 Si può dire, dunque, che nella nostra tradizione giuridica la legalità è il linguaggio del diritto penale, il quale, per esprimere i suoi contenuti precettivi attraverso enunciati normativi, si avvale, di regola, del comune uso della lingua. Certamente il linguaggio penalistico presenta immancabili tecnicismi, che non valgono, tuttavia a “separarlo” da quello comune. Il primo rimane una specie del secondo@.

 3.2. Il linguaggio è fatto anche di parole. “Forse è esagerato pensare che ogni parola possegga sette volte settanta significati: certo, però, che le parole dotate di un solo senso o quantomeno di pochissimi sensi, sono assai rare”@. Ma il linguaggio non si esaurisce nel vocabolario, ossia nei nomi delle cose, creato, secondo la Genesi, ancora prima dell’uomo. Fondamentale è la connessione tra i vari segni, che ci consente di selezionare, a seconda dei contesti, il carattere effettivamente polisenso delle parole. Il linguaggio non è tutto, anzi è anche troppo. Ma rinunciarvi significherebbe lasciare campo libero al giudicante. Del resto, il linguaggio non sempre è equivoco, almeno nella misura in cui consente di riconoscere significati certamente arbitrari. Considerarlo tale per definizione è una mistificazione, che finisce per disconoscerne perfino la funzione comunicativa. Nel diritto penale, il linguaggio, a partire da quello legislativo, non è solo scorza formale: i suoi significati costituiscono sostanza garantistica, delimitando il raggio di azione della pena. La soluzione ottimale risiede nell’individuare il senso corretto delle parole della legge@, quale punto d’incontro tra il popolo dei destinatari dei precetti penali e l’autorità preposta a sanzionarne la violazione.

 In breve: la parola va rispettata, non spremuta. Pur riflettendo la complessità dell’esistenza, il suo succo non è inesauribile. Chi troppo vuole dalla parola, nulla stringe. Al tempo stesso, è illusorio cercare un senso al di fuori del linguaggio.

 3.3. Il contributo che offre la scrittura alla certezza del diritto non è certo una novità. Basti pensare al codice di Hammurabi, dell’epoca paleo-babilonese, inciso su una stele di diorite, quale prototipo di diritto positivizzato. La fissità della legge scritta contribuisce indirettamente, dunque, alla comunicazione e alla certezza dei suoi contenuti, ma non è condizione sufficiente per la realizzazione di un siffatto importante obiettivo, il quale richiede, come si è detto, anche la pre-esistenza della norma, la determinatezza dei significati desumibili dal testo e la lealtà dell’interprete.

 Si comprende allora che la scrittura è solamente il presupposto di alcune importanti caratteristiche della legalità penale. All’oralità del diritto non sono precluse la pre-esistenza e la precisione, che possono mancare alla legge scritta (se intervenuta dopo il fatto o se generica). Allora perché la preferenza per la legalità scritta? Ovviamente per i vantaggi che provengono dalla conservazione del segno, non ultimo quello di poter vagliare, ex post, se l’attività interpretativa è stata correttamente svolta. Una verifica, questa, che risulterebbe ancora più impervia se le parole del diritto – dalla legge alle sentenze – non fossero scritte. L’oggettiva materialità del segno offre un presupposto meno opinabile al contraddittorio processuale in ordine ai suoi significati.

 3.4. Questo modello di legalità può risultare ingenuo se si sopravvaluta l’univocità espressiva del segno. Ma si tratta di un limite che in ogni caso riguarda la nostra capacità comunicativa e la natura del linguaggio.

 

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