testi ed ipertesti

Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta

9. La violazione di vincoli pubblicistici di intangibilità posti su specifiche cose: i delitti degli artt. 349 e 351 c.p.

 

 9.1. Con le fattispecie recate dagli artt. 349 e 351 c.p. il legislatore sembra avere apprestato tutela ad un precipuo profilo del più generale bene del «buon andamento» della P.A., ovverosia all’interesse di quest’ultima alla conservazione di determinate «cose», siano esse custodite dalla stessa P.A., siano esse nella disponibilità dei privati, ma nondimeno soggette a vincoli di conservazione esteriorizzati da appositi segni distintivi. In particolare, e come meglio si dirà, nella prima delle richiamate incriminazioni l’offesa si esprime nell’avvenuta violazione dei segni esteriori che significano ai terzi l’intangibilità della cosa (il «sigillo»), mentre nella seconda ad essere aggredita è direttamente la materialità della res in quanto custodita dalla P.A., sebbene al di fuori dei più specifici vincoli già considerati da altre fattispecie, come ad esempio quelle degli artt. 334, 335, ovvero 388 c.p.  

 9.2. Precipuamente, l’art. 349 c.p., rubricato «Violazione di sigilli», incrimina «Chiunque viola i sigilli, per disposizione della legge o per ordine dell’Autorità apposti al fine di assicurare la conservazione o la identità di una cosa». La disposizione, che nella sua dimensione letterale può assumere a tutta prima un sapore rétro, si riferisce ad uno strumento — quello appunto del «sigillo» — che invece è ancora utilizzato dalle Autorità pubbliche, giudiziarie e non, per significare erga omnes la sussistenza di un vincolo cautelare sulla cosa che ne è oggetto, della quale si intende specificamente preservare o lo stato in cui si trova (la «conservazione»), ovvero la sua riconoscibilità rispetto ad altre simili (la «identità»). Tuttavia, occorre segnalare come la prassi applicativa abbia significativamente slabbrato i contorni semantici della littera legis quanto meno in due direzioni.

 Da un canto, infatti, occorre segnalare come la nozione di «sigillo», che letteralmente allude a quegli specifici dispositivi apposti sulla res serbanda che appalesino l’esistenza del vincolo pubblico su di essa gravante, sia stata per lo più intesa in senso ampio, sì da ricomprendere ogni e qualsiasi segno esteriore che possa comunque manifestare l’esistenza di una volontà della P.A. di preservare un certo bene, come ad esempio è stato ritenuto il semplice cartello recante l’avvenuto sequestro di un cantiere@. D’altro canto, anche la prospettiva di tutela nella quale la sua dimensione letterale parrebbe collocare la fattispecie risulta essere stata nel tempo trasfigurata. Ed invero, alla salvaguardia dell’integrità materiale del sigillo apposto sulla cosa, che simbolizza la persistenza del vincolo su di essa gravante, è venuta sostituendosi la protezione della stessa «custodia sigillata», ossia, direttamente, la preservazione del vincolo pubblico che incombe sulla res serbanda. Solo in questa prospettiva, infatti, può spiegarsi il perché l’art. 349 c.p. sia stato ritenuto ugualmente applicabile anche in assenza della letterale «violazione» del sigillo, che ne sottintenderebbe la materiale rottura, apertura, rimozione, distruzione o simili, ma al ricorrere di una accertata infrazione del vincolo da questo simboleggiato. Si pensi ad esempio al caso dell’accesso ad un immobile guadagnato attraverso una finestra sulla quale, diversamente dalla porta e da tutte le altre aperture, per dimenticanza non era stato apposto il sigillo del sequestro giudiziario@, o a quello del soggetto che, in assenza di sigilli o segni esteriori dell’imposto vincolo, aveva utilizzato dei beni pur sapendo dell’esistenza di quest’ultimo@.    

 9.3. Salvo sembra invece essere rimasto, anche in giurisprudenza, il limite dello scopo a cui l’apposizione del sigillo violato deve essere funzionalmente orientata, che la disposizione incriminatrice identifica segnatamente in quello di assicurare «la conservazione o la identità» della res. È in questa prospettiva, infatti, che possono leggersi quegli orientamenti che negano la sussistenza del reato nei casi in cui il sigillo violato sia stato apposto, ad esempio, per attestare l’inagibilità di un immobile@, ovvero per impedire la prosecuzione di un’attività commerciale non autorizzata@.

 È infine da segnalare che il secondo comma dell’art. 349 c.p. contempla una aggravante per il precipuo caso in cui il fatto sia commesso da chi «ha in custodia» la cosa, ovverosia da colui che sia stato nominato dall’Autorità «custode» della stessa. Siffatta investitura, che del resto fa assumere a tale soggetto la qualifica di esercente un pubblico servizio, invero produce in capo al custode un obbligo istituzionale di conservazione della cosa, che peraltro deve essere espressamente accettato: obbligo formale, questo, la cui violazione spiegherebbe l’aggravio di pena.

 9.4. Da parte propria, l’art. 351 c.p., rubricato «Violazione della pubblica custodia di cose», punisce, salvo che il fatto «non costituisca un più grave delitto», chiunque «sottrae, sopprime, distrugge, disperde o deteriora corpi di reato, atti, documenti, ovvero un’altra cosa mobile particolarmente custodita in un pubblico ufficio, o presso un pubblico ufficiale o un impiegato che presti un pubblico servizio». Come appare chiaro, la disposizione intende sanzionare le forme più gravi di offesa recata all’interesse della P.A. alla salvaguardia dell’integrità di specifiche cose, posto che essa non soltanto richiede che la res serbanda venga sottratta od irrimediabilmente soppressa, distrutta, dispersa o deteriorata, ma anche che quest’ultima già fosse nella disponibilità materiale della P.A.

 9.5. Le problematiche interpretative che la fattispecie pone non sono tanto quelle legate all’individuazione della condotta criminosa, che, come visto, il legislatore ha tipizzato mediante un’elencazione tendenzialmente esaustiva delle forme di “aggressione” materiale esercitabili sulla res. Le maggiori difficoltà emergono, infatti, nella perimetrazione delle cose sulle quali, secondo la disposizione, le condotte criminose devono abbattersi. Per vero, soverchie difficoltà non sembrerebbero porsi nell’individuare ciò che deve intendersi per «corpo del reato», venendo difatti all’uopo in soccorso il disposto dell’art. 253, comma 2, c.p.p., ma lo stesso non può dirsi per gli ulteriori oggetti materiali richiamati. Peraltro, va premesso che, allo scopo di conferire alla fattispecie una maggiore pregnanza offensiva, che meglio ne giustificherebbe la risposta sanzionatoria, si ritiene pacificamente che oggetto di «particolare custodia» debbano essere non soltanto la «cosa mobile», alla quale unicamente il legislatore si riferisce da un punto di vista letterale, ma anche il suddetto corpo del reato nonché gli «atti» ed i «documenti», il che naturalmente rende ancora più decisivo comprendere in cosa consista la «particolarità» di siffatta custodia, che è invece qualificazione tutt’altro che chiara.

 E per vero, nell’interpretazione di tale requisito sembrano misurarsi tre diverse ricostruzioni interpretative, il cui denominatore comune è costituito dalla affermata irrilevanza del fatto che la P.A. abbia o meno assunto in concreto precipue misure di cautela a protezione della res. Secondo un più formale approccio, le cose dovrebbero ritenersi «particolarmente» custodite allorquando sussistano precipue disposizioni normative – siano esse di legge o di rango amministrativo – che stabiliscano particolari cautele per la detenzione, copia o conservazione delle cose stesse (es.: domande di concorsi pubblici, merci nei depositi doganali, ecc.). A parere di altri, invece, ciò che per definizione renderebbe speciale la custodia di talune cose sarebbe il fatto che la loro sostituzione si rivelerebbe difficile o comunque comporterebbe un grave danno alla P.A. coinvolta. Secondo, infine, un terzo approccio interpretativo, più radicato in giurisprudenza e maggiormente sensibile alla ratio di tutela più profonda dell’incriminazione, soggette a custodia particolare dovrebbero sempre e comunque intendersi tutte quelle cose, atti o documenti che risultino avvinte da uno stretto rapporto funzionale al perseguimento del fine istituzionale della specifica P.A.@, con esclusione, naturalmente, di tutto quello che costituisce la ordinaria dotazione od il corredo del pubblico ufficio.       

 

184 di 207


Sommario