testi ed ipertesti

Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta

8. L’abusivo esercizio di funzioni pubbliche o di attività soggette a controllo amministrativo: i delitti degli artt. 347 e 348 c.p.

 

 8.1. Non è difficile comprendere come il buon andamento dell’attività amministrativa risulterebbe pregiudicato se le funzioni pubbliche potessero essere esercitate da chiunque, in difetto della legale investitura che lo abilita alla funzione stessa. D’altra parte, è noto come, in ragione della loro delicatezza tecnica ed importanza sociale, l’esercizio di determinate attività private debba essere autorizzato dalla stessa P.A., poiché norme di legge stabiliscono precipuamente le condizioni abilitative in presenza delle quali un soggetto le può legittimamente esercitare. Risulta allora forse intuibile il fil rouge che, pur con qualche semplificazione concettuale, sembra avvincere le previsioni delittuose degli artt. 347 e 348 c.p., rubricate, rispettivamente, «Usurpazione di funzioni pubbliche» ed «Esercizio abusivo di una professione».

 8.2. In particolare, l’art. 347 c.p. ha inteso salvaguardare la regolarità della struttura organizzativa della P.A., presupposto fondamentale del regolare funzionamento dell’attività da questa svolta, prevedendo due distinte fattispecie di reato, sebbene esse risultino punite in eguale modo sia quanto all’ammontare della pena principale, sia per l’identità della pena accessoria prevista, ossia quella della pubblicazione della sentenza di condanna (art. 347, ultimo comma, c.p.).

 La prima ipotesi di reato consiste nella c.d. «usurpazione in senso stretto», ovverosia nella condotta di chiunque – sia esso privato che p.u. – appunto usurpi una «funzione pubblica», ossia il complesso dei poteri propri di un certo ufficio, ovvero le «attribuzioni inerenti a un pubblico impiego», e cioè l’insieme dei compiti svolti da un dipendente pubblico. Il verbo «usurpare» designa, in generale, la condotta di chi, senza alcun titolo di investitura, o, più in generale, senza alcuna precipua manifestazione di volontà espressa dalla P.A., eserciti uno dei suddetti poteri od attribuzioni. Al riguardo, va comunque precisato che, per ragioni sistematiche e di considerazione del principio di offensività, si ritiene che non sia sufficiente, per aversi usurpazione, che il soggetto si attribuisca un titolo od una qualità tipica di un impiego pubblico, ad esempio “autoproclamandosi” carabiniere piuttosto che professore universitario, provvedendo ciò a stigmatizzare già l’art. 498 c.p., essendo invece necessario che egli eserciti in concreto una attività corrispondente a quella usurpata@. Nella medesima prospettiva, si è ulteriormente precisato che, laddove ad agire fosse un p.u., si potrebbe parlare di usurpazione in senso proprio non già nel caso in cui egli avesse emanato un atto che semplicemente viola le regole interne di attribuzione delle competenze entro una certa P.A., bensì nell’ipotesi nella quale egli avesse esercitato un potere del tutto estraneo a quelli tipici del suo ufficio (c.d. «incompetenza assoluta»), dato che nel primo caso troverebbe applicazione, semmai, il delitto di abuso d’ufficio@.

 8.3. La seconda ipotesi di reato descrive una più specifica figura di usurpazione delle pubbliche funzioni meglio definibile come «arbitraria prosecuzione di funzioni pubbliche». Il secondo comma dell’art. 347 c.p., infatti, incrimina il p.u. che, pur avendo ricevuto il provvedimento che lo fa cessare o lo sospende dalle funzioni, «continua ad esercitarle». Al riguardo, basterà richiamare l’attenzione sul fatto di come, per configurare il reato, sia necessario che la cessazione o la sospensione dal servizio consegua da un esplicito «provvedimento» della P.A., del quale l’agente abbia – secondo la burocratica espressione dei codificatori – «ricevuto partecipazione», non rilevando quindi, ad esempio, eventuali automatismi temporali nella scadenza del mandato, il che, evidentemente, agevola l’accertamento del “dolo di usurpazione” dell’agente.

 8.4. Il primo comma dell’art. 348 c.p. punisce chiunque «abusivamente esercita una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato». Come si anticipava, la disposizione incriminatrice è intesa a salvaguardare l’interesse pubblico al che determinate attività professionali vengano esercitate soltanto da soggetti in possesso di specifici titoli abilitativi, presidiando con la sanzione penale l’effettività del “filtro di accesso” alle stesse predisposto dalla legge extra-penale.

 Non stupisce, quindi, che il nucleo offensivo della fattispecie in rilievo sia costituito dal riferimento che essa opera al carattere «abusivo» dell’attività esercitata, il quale sottintende, quanto meno, la radicale assenza del titolo abilitativo richiesto dalla legge. In questa prospettiva, va precisato che, secondo l’interpretazione prevalente, proprio il richiamo alla suddetta abusività della condotta, che sottintenderebbe la violazione del sistema formalizzato di autorizzazioni normative che presidia l’accesso allo svolgimento di certe professioni, preclude al giudice ogni altro apprezzamento di natura sostanziale sulla titolazione del reo o sulla bontà di quanto da egli de facto compiuto. Ciò significa che ai fini della sussistenza del reato non potranno essere valutati, ad esempio, l’effettiva perizia tecnica della condotta nondimeno intrapresa dal reo, il possesso dei requisiti materiali che lo avrebbero legittimato ad ottenere l’abilitazione richiesta, la reale dannosità, per i suoi destinatari, della prestazione professionale svolta, ecc. Se, quindi, il delitto de quo si presenta come fattispecie di danno rispetto all’interesse pubblico al controllo sull’accesso a certe professioni, così che esso risulti limitato a quei soggetti la cui idoneità sia stata formalmente certificata nei modi di legge, rispetto agli interessi finali dell’utente a cui la prestazione è rivolta esso si struttura come reato di pericolo presunto.

 8.5. Come tutte le non poche fattispecie presenti nel sistema penale che si limitano sic et simpliciter a sanzionare l’esercizio abusivo di una certa attività soggetta ad autorizzazione pubblica, anche quella prototipale dell’art. 348 c.p. propone all’interprete un medesimo problema. Premesso infatti che, come detto, nessun dubbio sulla sussistenza di un simile reato residua ogniqualvolta il reo risulti ab imis sprovvisto del richiesto titolo abilitativo, ci si chiede, però, se ed in quali termini patologie iniziali dell’atto autorizzativo o vicende che potrebbero successivamente interessarlo possano influire sulla configurabilità del fatto di reato. Sul punto, basterà qui segnalare come la tendenza prevalente sia quella di distinguere le situazioni sulla base della gravità della patologia che può affliggere il titolo autorizzativo, ovvero in relazione alla radicalità degli effetti che un provvedimento sopraggiunto può dispiegare sulla perduranza dello stesso. Così, ad esempio, il reato in questione è stato ritenuto in capo a chi abbia esercitato una professione protetta nonostante un provvedimento di sospensione disciplinare o radiazione dal relativo albo@, mentre a diverse conclusioni si è giunti in caso di soggetti che avrebbero dovuto astenersi dal compimento di certi atti professionali in quanto versanti in condizione di incompatibilità o di incompetenza territoriale@.

 8.6. Molto si è pure discusso su quale sia la soglia minima di condotta abusiva sufficiente a potere affermare che il reo abbia sine titulo «esercitato» una certa professione. Secondo un più rigoroso orientamento, che parrebbe tuttavia in fase recessiva, anche il compimento di un singolo atto, pur se a titolo gratuito, riconducibile al novero di quelli tipici della professione che viene in rilievo sarebbe sufficiente ad integrare il reato@. Secondo un diverso orientamento, più diffuso nella recente giurisprudenza, occorrerebbe invece un esercizio «organizzato» e «continuativo» dell’attività propria della suddetta professione, risultando quindi privo di significato il compimento di atti occasionali o sporadici@. A  sostegno di una tale ricostruzione potrebbe invero militare non soltanto il testuale riferimento che la disposizione opera all’«esercizio» di una certa attività, che sottintenderebbe una certa continuità degli atti posti in essere, ma anche la circostanza che a criteri quasi del tutto analoghi si è richiamato lo stesso legislatore in quei casi – simili ma certo non totalmente sovrapponibili – nei quali egli ha parificato alla responsabilità dei soggetti in possesso formalmente di certe qualifiche quella di coloro che, di fatto, ne esercitavano le prerogative più tipiche, come ad esempio è successo nel caso dell’art. 2639 c.c.

 8.7. Un cenno meritano, infine, le innovazioni che la l. n. 3 del 2018 (c.d. «legge Lorenzin») ha introdotto nell’art. 348 c.p., tese ad inasprirne il trattamento sanzionatorio con una particolare attenzione – sebbene non tradottasi in precipue specificazioni normative – agli esercenti una professione sanitaria. Nel nuovo secondo comma, infatti, si prevede la pubblicazione della sentenza di condanna e la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, nonché, laddove il reo eserciti regolarmente una «professione o attività», la trasmissione della stessa sentenza «al competente Ordine, albo o registro ai fini dell’applicazione dell’interdizione da uno a tre anni dalla professione o attività regolarmente esercitata». L’inedito terzo comma, invece, ha provveduto ad emarginare, tra le possibili condotte di compartecipazione al reato, quella del «professionista che ha determinato altri a commettere il reato di cui al primo comma ovvero ha diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo», sanzionandola con una pena aggravata.

 

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