testi ed ipertesti

Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta

7. Lo sfruttamento di rapporti privilegiati reali o millantati con la P.A.: il delitto dell’art. 346-bis c.p.

 

 7.1. Al ben noto fenomeno della c.d. «venditio fumi» i codificatori del 1930 avevano risposto con il delitto dell’oggi abrogato art. 346 c.p., che, sotto la rubrica di «Millantato credito», puniva chiunque, «millantando» appunto “aderenze” con un pubblico funzionario, si facesse dare o promettere da un terzo denaro o altre utilità quale corrispettivo della propria attività di mediazione con la P.A. Per vero, tale fattispecie si era mostrata sin da subito problematica, in ragione dell’ambiguità mostrata dal concetto di «millanteria», foriero di confusioni applicative con il delitto di truffa, del quale siffatta ipotesi criminosa rischiava di diventare niente più che un’ipotesi particolare. Segnatamente, molto si discuteva se la predetta «millanteria» dovesse intendersi come vanto di un credito presso il p.u. in realtà inesistente, ovvero come sottolineatura di una reale “capacità di manovra” che il reo potesse avere nei confronti del p.u. Tuttavia, era con il tempo apparso chiaro che, se intesa nel primo senso, la condotta tipizzata dall’art. 346 c.p. avrebbe assunto i connotati dell’inganno truffaldino perpetrato dal “venditore di fumo” ai danni del “compratore di fumo”. Si era perciò infine consolidata la seconda delle predette interpretazioni, che aveva finito però per trasformare il volto della fattispecie, che da ipotesi criminosa fondata sullo schema della “vendita di fumo”, aveva assunto i tratti tipici del c.d. «traffico di indebite influenze» realmente esistenti, il cui disvalore veniva a concentrarsi sul mercimonio di abusive mediazioni presso la P.A. Ma se, da un canto, tale lettura suppliva ad una lacuna di tutela, posto che, diversamente argomentando, sarebbe rimasta impunita proprio l’ipotesi di più grave offesa al buon andamento della P.A., dall’altro, però, essa originava una intollerabile zona franca per il terzo, che, in tale dinamica criminosa, risultava sodale del mediatore.

 7.2. Ad una tale situazione, per certi versi paradossale, intese porre rimedio la l. n. 190 del 2012 (c.d. «legge Severino») introducendo, all’art. 346-bis c.p., la fattispecie di «Traffico di influenze illecite», che per alcuni anni ha convissuto con quella dell’originario art. 346 c.p. In effetti, tale convivenza risultava possibile poiché, nella sua iniziale versione, la nuova figura di reato prevedeva che il mediatore sfruttasse esclusivamente «relazioni esistenti» con il p.u. e che anche il terzo committente venisse punito, ciò che, per conseguenza, ricollocava il «Millantato credito» entro il tradizionale schema della venditio fumi@. Tuttavia, vuoi per la pressione verso un più rigoroso adempimento degli obblighi assunti in campo internazionale, vuoi per il mutato clima politico, con la l. n. 3 del 2019 (c.d. «legge spazzacorrotti») il Parlamento ha provveduto tra l’altro a ridisegnare i contorni dell’originario delitto dell’art. 346-bis, in cui quello dell’art. 346 c.p. è stato inglobato, ed a inasprirne il trattamento sanzionatorio.  

 7.3. L’attuale art. 346-bis c.p. contiene due diverse ed alternative ipotesi criminose, che tuttavia presentano numerosi elementi in comune.

 Anzitutto, il delitto di «Traffico di influenze illecite» si presenta come reato necessariamente plurisoggettivo, nell’ambito del quale risultano puniti tanto il «mediatore», ossia colui che vanta o ha una reale influenza sul funzionario pubblico, quanto il «committente», ossia colui che a questi dà o promette denaro ovvero altra utilità (v. comma 2).

 In entrambe le ipotesi criminose, inoltre, è possibile che il mediatore possa tanto sfruttare un rapporto di aderenza che egli in effetti ha con il soggetto pubblico, capace di influenzare la condotta di quest’ultimo (traffico di influenze c.d. «effettivo»), quanto vantare un rapporto di tal fatta che, nella realtà, non sussiste, e che quindi è da questi meramente «asserito» (traffico di influenze c.d. «potenziale»). In ogni caso, l’oggetto della controprestazione che il committente dà o promette al mediatore per la sua attività può consistere non solo nel «denaro», inteso naturalmente anche nei suoi più diretti sostituti, ma anche in ogni altra «utilità», che, diversamente da quanto prevedeva l’originaria versione della fattispecie, non deve più necessariamente connotarsi in senso patrimoniale, potendosi quindi ora estendersi ad ogni tipo di vantaggio – materiale, morale, patrimoniale e non patrimoniale –  obbiettivamente apprezzabile (ad es.: dazione di voti, prestazioni sessuali, ecc.).

 Va infine ricordato che, in ogni caso, il delitto qui in rilievo risulta strutturato secondo il paradigma dei cc.dd. «reati-contratto», ossia di quelle figure criminose che incriminano la stessa stipula di un certo negozio giuridico, la cui esistenza è fonte di quel disvalore che il legislatore ha inteso colpire con la pena. Ne deriva che i reati in questione debbono ritenersi perfezionati nel momento stesso in cui risulti a sua volta concluso il pactum sceleris, e cioè, nel caso di specie, il “patto d’influenza” tra mediatore e committente. Di conseguenza, ed ulteriormente, nessun rilievo avrà la circostanza che il mediatore abbia poi effettivamente esercitato la propria influenza sul funzionario pubblico, o che quest’ultimo abbia realmente posto in essere la condotta oggetto della influenza. Naturalmente, e come si evince dall’iniziale clausola di riserva contenuta nello stesso art. 346-bis c.p., poiché questo sanziona nella sostanza atti potenzialmente anticipatori dei più gravi reati previsti dagli artt. 318, 319, 319-ter e 322-bis c.p., ne consegue che la fattispecie qui in rilievo cederà il passo a queste ultime laddove, avendo il mediatore effettivamente dato o promesso l’utilità all’intraneus, esse dovessero giungere a consumazione.  

 7.4. Come detto, due sono le figure di traffico illecito di influenze contemplate dall’art. 346-bis c.p.:

a) la prima, c.d. «gratuita», ricorre allorquando il mediatore si fa dare o promettere dal committente, per sé o per altri, denaro ovvero un’altra utilità «per remunerare» l’agente pubblico in vista dell’«esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri»: espressione, questa, nella quale correntemente si legge un richiamo al futuro compimento, da parte del funzionario, o di un atto del proprio ufficio, ovvero di un atto contrario ai doveri del proprio ufficio, il che comporterebbe l’integrazione dei reati di corruzione poc’anzi richiamati.

b) la seconda, c.d. «onerosa», si prospetta invece laddove il mediatore si faccia dare o promettere dal committente, per sé o per altri, denaro od altra utilità come «prezzo» della propria «mediazione illecita» verso il soggetto pubblico. Come ben si comprende, tale ipotesi di reato si presenta in una forma assai più evanescente di quella precedente, poiché, diversamente da questa, il disvalore non si concentra qui sul fine ultimo dell’attività di mediazione incriminata, ossia l’auspicato compimento di un certo atto funzionale da parte dell’agente pubblico, bensì su di uno specifico attributo della stessa intermediazione, ovverosia la sua «illiceità». Ma come risulta evidente, il carattere lecito od illecito di una tale attività (c.d. «lobbying»), che – va precisato – non è di per sé in assoluto vietata, potrebbe individuarsi con accettabile precisione soltanto in presenza di una normativa che fissasse i presupposti e stabilisse le procedure della legittima intermediazione con la P.A.: regolamentazione, questa, che al momento però non esiste. Da qui, una sorta di “delega in bianco” che la fattispecie sembrerebbe allora contenere a favore del giudice, che, di volta in volta, sarebbe chiamato ad individuare le modalità di intermediazione penalmente rilevanti. Ben si comprende, perciò, lo sforzo intrapreso dalla dottrina e dalla giurisprudenza per definire i contenuti di siffatta «illiceità», che l’interpretazione oggi dominante rinviene nella provata finalizzazione dell’attività di lobbying alla commissione, da parte del funzionario pubblico, di un qualsiasi fatto di reato idoneo a produrre vantaggi a favore del committente@.

 7.5. La fattispecie dell’art. 346-bis c.p. prevede uno specifico corredo di aggravanti ed attenuanti. In particolare, un primo aumento di pena è contemplato dal terzo comma nel caso in cui risulti che «il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro od altra utilità rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio. Da parte propria, il quarto comma collega un aggravio di pena alla circostanza che i fatti risultino commessi «in relazione all’esercizio di attività giudiziarie, o per remunerare il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’art. 322-bis in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio». Infine, l’ultimo comma prevede una circostanza attenuante non certo sconosciuta né all’ambito dei reati contro la P.A., né ad altri settori di intervento del diritto penale e che, qui riprodotta, solleva però il consueto della sua esatta perimetrazione, posto che essa collega l’abbattimento di pena alla «particolare tenuità» del fatto.

 

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