Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta
5. (Segue). Le clausole generali degli artt. 393-bis e 131-bis, comma 3, c.p.
5.1. Alle fattispecie di reato in esame risultano applicabili due clausole generali che, sebbene entrambe collocate al di fuori del Capo II, assumono rilevanza nel perimetrare l’area della “punibilità in concreto” delle prime. Il riferimento è, in particolare, alle previsioni degli artt. 393-bis e 131-bis, comma 3, c.p., destinate a produrre conseguenze tra loro opposte: la prima, infatti, esenta dalla pena colui che abbia commesso un fatto di violenza, minaccia, resistenza od oltraggio a pubblico ufficiale a condizione che esso costituisca reazione ad un «atto arbitrario» commesso dal funzionario pubblico; la seconda, invece, a certe condizioni sottrae alcune delle fattispecie qui di interesse all’applicazione della clausola di irrilevanza introdotta dallo stesso art. 131-bis c.p., presumendo ope legis che i fatti in esse descritti non possano mai considerarsi di «particolare tenuità».
5.2. L’odierno art. 393-bis c.p. costituisce la trasposizione codicistica, operata dal legislatore nel 2009, di una previsione che risultava già contenuta nell’art. 4 del d.lgs.lgt. n. 288 del 1944, che costituì uno dei primi provvedimenti assunti dal governo provvisorio italiano per «defascistizzare» – come allora si diceva – la legislazione penale. In effetti, la presenza o meno di una clausola di tal fatta all’interno di un ordinamento viene comunemente considerata alla stregua di un “indicatore” del tasso di democraticità dello stesso, come del resto l’esperienza storica del nostro sistema penale parrebbe plasticamente confermare. Non è un caso, difatti, che la clausola in questione fosse presente nel codice Zanardelli (art. 192), non risultasse confermata dal codice Rocco, ma venisse prontamente reintrodotta non appena parve evidente che il regime autoritario sarebbe a breve caduto in tutto il territorio nazionale. Ed invero, scopo di una tale disposizione è quello di garantire il rispetto della libertà morale del cittadino di fronte all’atto di sopraffazione commesso dal pubblico agente, posto che, in un regime che voglia dirsi liberal-democratico, non può incombere sul cittadino il dovere di subire passivamente ogni sopruso solo perché perpetrato da un p.u. ed in nome di un aprioristico ed assoluto senso di rispetto verso lo stesso, come del resto sembra potersi dedurre dagli artt. 2, 3, 28 e 97 Cost. D’altronde, non esula dall’alveo di tutela di una clausola siffatta pure l’esigenza di preservare la legalità dell’azione dei pubblici poteri, il cui immediato ripristino eccezionalmente demandato al privato si giustifica per la vistosa e penetrante patologia che affligge l’atto posto in essere dal p.u.
La fattispecie dell’odierno art. 393-bis c.p. può strutturalmente rappresentarsi come una sequenza causale tra fattori condizionanti e fattori condizionati. Più precisamente, il fattore condizionante è costituito dall’atto prevaricatore del p.u., che deve «eccede[re] con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni», mentre il fattore condizionato è individuabile nella reazione del privato cittadino, che risulterà non punibile negli stretti limiti in cui essa integri i fatti previsti dalle «disposizioni degli articoli 336, 337, 338, 339, 339-bis, 341-bis, 342 e 343». Naturalmente, si parla di fattore “condizionante” e di fattore “condizionato” poiché è la stessa disposizione a richiedere che il primo abbia «dato causa» al secondo, come a dire che la reazione del privato deve risultare avvinta all’atto arbitrario del p.u. da un nesso di causalità psichica, con tutti i problemi di accertamento probatorio che, però, un siffatto nesso eziologico notoriamente reca.
5.3. Se questa è la struttura logica della fattispecie, appare chiaro come il fulcro problematico della stessa non possa che rinvenirsi nella definizione dell’atto “prevaricatore” del p.u., la cui divergenza da quello richiesto è tale da rendere non punibile l’immediata reazione del privato. In effetti, la sua delimitazione concettuale è risultata non poco problematica, anche in ragione della infelice formula linguistica utilizzata dal legislatore, che si riferisce ad un p.u. che «eccede […] con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni». Premesso che l’atto che «eccede i limiti delle attribuzioni» è, secondo il diritto amministrativo, quello illegittimo per sviamento del potere, ci si è chiesti, tuttavia, se la «arbitrarietà» alla quale la legge parimenti allude debba considerarsi sinonimo di tale illegittimità, ovvero se la prima si aggiunga alla seconda, il che porrebbe all’interprete un ulteriore problema definitorio.
In questa sede, basterà soltanto dare atto delle due principali ricostruzioni che della «arbitrarietà» hanno fornito dottrina e giurisprudenza. Secondo la prima, a base tendenzialmente soggettiva, l’atto sarebbe arbitrario ove esprimesse all’esterno un atteggiamento «aggressivo» o comunque «vessatorio» ispirato da «malanimo», «prepotenza» o «capriccio» del p.u., il quale sarebbe soggettivamente conscio di perpetrare ai danni del privato un sopruso@. Secondo una diversa interpretazione, che prescinde invece da qualsiasi dolosa consapevolezza del p.u. circa la illegittimità ed arbitrarietà del proprio comportamento, risulterebbe arbitrario l’atto che, anche ove formalmente legittimo, venga compiuto con modalità scorrette, offensive e comunque sconvenienti, in quanto convenienza ed urbanità dei modi dovrebbero ritenersi sempre doverose per il p.u., di talché la loro assenza si tradurrebbero, comunque, in un eccesso di attribuzioni@.
5.4. Da non trascurare è la questione dell’inquadramento dell’istituto recato dall’art. 393-bis c.p. nell’ambito della teoria del reato, non fosse altro per evidenziarne le potenziali ricadute applicative. A tale riguardo, è sufficiente anzitutto segnalare come, almeno secondo la ricostruzione oggi forse prevalente, la qualificazione in termini di «causa di non punibilità» che il legislatore espressamente fornisce dell’istituto de quo non colga l’intima natura di quest’ultimo. Si sostiene, infatti, che l’art. 393-bis c.p. tratteggerebbe invece una «causa di giustificazione», considerato che il suo fondamento andrebbe ricercato non già in ragioni di opportunità esterne ed ulteriori rispetto al fatto tipico, antigiuridico e colpevole, bensì nella logica del bilanciamento degli interessi, specularmente a quanto avviene, a seconda delle diverse ricostruzioni, o nel caso della legittima difesa, ovvero nell’esercizio di un diritto, posto che dalla Costituzione sarebbe possibile ricavare l’affermazione di un «diritto di resistenza» del privato a fronte di un atto palesemente arbitrario del p.u.
È tuttavia da segnalare come da siffatta qualificazione dell’istituto non sempre risulti affermata, come coerenza invece imporrebbe, la sottoposizione dello stesso all’intero statuto normativo delle cause di giustificazione. Ed invero, secondo una certa ricostruzione prospettata in dottrina, non condivisa tuttavia dalla giurisprudenza@, la ferrea dinamica azione-reazione descritta dall’art. 393-bis c.p. presupporrebbe la sussistenza, in capo al soggetto reagente, di coefficienti psicologici reali e pieni, di talché non sarebbe possibile riconoscere la tipica rilevanza oggettiva delle cause di giustificazione sancita dall’art. 59, comma 1, c.p., ovvero l’equiparazione del putativo al reale prevista dal quarto comma del medesimo articolo (c.d. «arbitrarietà putativa»). Certo è che, così argomentando, non solo si tende di fatto a spostare il fondamento dell’istituto verso l’orbita delle scusanti, piuttosto che mantenerlo in quello proprio delle cause di giustificazione, ma, viepiù, sembra venire meno anche una buona e rilevante parte delle conseguenze applicative che derivano dall’averlo collocato tra le esimenti piuttosto che tra le cause di non punibilità in senso stretto.
5.5. Da non trascurare, infine, è il disposto dell’art. 131-bis, comma 2, c.p., che, sebbene collocato nella «Parte generale» del codice, come anticipato detta una regola applicativa che riguarda precipuamente i reati qui in rilievo. Nel tentativo, infatti, di irrigidire la tutela dei pubblici ufficiali, nel convertire in legge un «decreto-sicurezza» del giugno 2019, il Parlamento aveva arricchito l’elenco delle ipotesi sottratte al giudizio di «particolare tenuità» del fatto già contenuto nella disposizione, inserendovi indiscriminatamente anche «i casi di cui agli articoli 336, 337 e 341-bis, quando il reato è commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni» (v. l. 8.8.2019, n. 77). Tale aggiunta aveva però sollevato diffuse perplessità, non fosse altro perché essa introduceva una presunzione assoluta di “non tenuità” assai generica, che avrebbe condotto a considerare processualmente uguali situazioni invero tra loro molto diverse, e ciò in evidente contrasto con i principii costituzionali di eguaglianza, offensività e colpevolezza.
Da qui, la proposizione di questioni di legittimità costituzionale e convenzionale da parte di alcuni giudici di merito, alle quali, nelle more dell’invocato intervento delle alte Corti, il legislatore ha cercato di offrire una risposta circoscrivendo ed allargando allo stesso tempo il raggio applicativo della suddetta esenzione (v. d.l. n. 230 del 2020, conv. in l. n. 173 del 2020). E ciò, da un canto, specificando che i pubblici ufficiali nei cui confronti i reati elencati risultano essere sati commessi sono precipuamente i soli agenti od ufficiali «di pubblica sicurezza» o di «polizia giudiziaria» nell’esercizio delle proprie funzioni, e, dall’altro, includendo della lista dei reati presuntivamente “non tenui” la fattispecie di «Oltraggio a magistrato in udienza» dell’art. 343 c.p.: assetto della disciplina, questo, confermato dalla stessa Corte costituzionale@, e passato indenne dalle modifiche apportate da ultimo all’art. 131-bis c.p. dalla c.d. «riforma Cartabia», che sul punto si è limitata a ricollocare topograficamente la clausola in discorso in un nuovo comma 3, n. 2, della disposizione codicistica da ultimo richiamata.
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