Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta
3. Fattispecie di opposizione violenta all’attività della P.A.: i delitti degli artt. 336, 337 e 337-bis c.p. in particolare
3.1. Gli artt. 336 e 337 c.p., rubricati rispettivamente «Violenza o minaccia ad un pubblico ufficiale» e «Resistenza a un pubblico ufficiale», scolpiscono le due principali fattispecie con le quali il legislatore ha inteso salvaguardare il genuino e spedito esercizio delle pubbliche funzioni, reprimendo quelle condotte che, prime fra tutte, frontalmente vi si oppongono: quelle di natura violenta o minacciosa.
Il primo elemento comune alle fattispecie de quibus è costituito, infatti, dalle modalità della condotta, consistenti appunto nell’impiego della «violenza» o della «minaccia». Come è noto, tali concetti ricorrono spesso nel codice penale, che ad essi si richiama nella struttura di numerose fattispecie poste a salvaguardia dei più diversi beni giuridici, da quelli più tipici della persona (incolumità, libertà individuali, patrimonio, ecc.), a quelli di natura superindividuale (personalità dello Stato, amministrazione della giustizia, attività della P.A., incolumità pubblica, ecc.). A tale riguardo, giova segnalare che la prassi applicativa degli artt. 336 e 337 c.p. non sembra – diversamente da quanto è avvenuto in altri ambiti – avere sottoposto a particolari “adattamenti” tali concetti, che quindi possono essere qui intesi nelle loro accezioni ormai consolidate. Il riferimento alla «violenza» dovrebbe quindi includere sia quella reale che quella personale, e quest’ultima tanto nella sua forma «propria» che «impropria», laddove il rinvio alla «minaccia» richiamerebbe i risultati interpretativi maturati nell’applicazione dell’omonimo delitto scolpito dall’art. 612 c.p.
Il secondo elemento comune alle due fattispecie in rilievo è rappresentato dall’orientamento funzionale che ne deve caratterizzare la condotta. Ed invero, in entrambe le suddette figure delittuose l’utilizzo della violenza o della minaccia non risulta punito di per sé, bensì in quanto strumento per influire sulla capacità di autodeterminazione del pubblico funzionario, e quindi traviare od ostacolare il dispiegarsi dell’azione amministrativa: è infatti tale risultato (id est: «evento») che sembra connotare in chiave di specifica aggressione ad interessi propri della P.A. le fattispecie qui in rilievo. D’altra parte, se è vero che tale evento offensivo non può prodursi in capo alla P.A. se non attraverso l’intimidazione della persona fisica che ne esercita le funzioni, non è però richiesto, come si vedrà, che quest’ultima costituisca sempre e comunque anche l’oggetto immediato della condotta tipica. Riprova ne sia il fatto che la sussistenza dei reati in questione non viene di norma esclusa dalla circostanza che, ad esempio, l’agente abbia diretto il proprio agire criminoso su di un soggetto terzo, purché tale comportamento possa nei fatti considerarsi mezzo di pressione psicologica sul pubblico funzionario.
Nella medesima prospettiva di tutela si colloca anche il delitto dell’art. 337-bis c.p., il quale, però, sembra recare un presidio assai più avanzato del regolare svolgimento dell’attività amministrativa, andando a colpire l’allestimento o la mera custodia di strumenti che, per le loro alterate caratteristiche, possono efficacemente opporsi all’attività repressiva della P.A., con pericolo per l’incolumità fisica dei funzionari pubblici coinvolti.
3.2. L’art. 336, comma 1, c.p. sanziona chiunque usi violenza o minaccia «per costringer[e]» un p.u. o un i.p.s. a «fare un atto contrario ai propri doveri», ovvero ad «omettere un atto dell’ufficio o del servizio». Risulta quindi confermato come il cuore della fattispecie sia rappresentato, come si anticipava, dalla necessaria presenza di un nesso funzionale tra la condotta violenta o minacciosa intrapresa dal reo ed il comportamento accondiscendente richiesto al soggetto pubblico, ossia il compimento di un atto contrario ai propri doveri o l’omissione di un atto del proprio ufficio: concetti, questi, che naturalmente l’interprete dovrà intendere alla luce della normativa amministrativa sottostante.
Secondo l’interpretazione prevalente, la disposizione incriminatrice richiederebbe l’idoneità in concreto della condotta criminosa a piegare l’operato del funzionario pubblico agli scopi del reo, e quindi ad ottenere l’emissione, ovvero l’omissione, dell’atto amministrativo, con conseguente pregiudizio della formazione libera e genuina della volontà della P.A. In questa prospettiva, l’art. 336 c.p. recherebbe un reato di pericolo concreto, posto che: da un canto, esso richiederebbe al giudice di accertare se, tenuto conto delle circostanze fattuali e delle caratteristiche soggettive dei protagonisti coinvolti, la condotta vantasse o meno quella capacità intimidatrice necessaria a «costringere» richiestale dal legislatore; dall’altro, esso non si consumerebbe con l’effettivo ottenimento, da parte del soggetto attivo, di quanto richiesto al funzionario pubblico, attestandosi invece la pena su di una soglia di intervento più arretrata, corrispondente al momento in cui il reo pone in essere la (a ciò idonea) condotta violenta o minacciosa.
Una pena più lieve presidia, invece, l’ulteriore fattispecie contemplata dal secondo comma del medesimo art. 336 c.p., che prende in considerazione il caso in cui il reo abbia costretto il soggetto pubblico a compiere un atto del proprio ufficio o servizio, ovvero abbia diversamente «influito» sulla sua persona. Come ben si comprende, la individuazione di ciò che costituisce o meno atto dell’ufficio risulta ancora una volta demandata eminentemente allo studio delle norme organizzative delle specifiche pubbliche amministrazioni coinvolte. Maggiormente problematico risulta invece perimetrare il significato della «influenza» sulla persona del pubblico funzionario alla quale la disposizione ulteriormente allude. Non è un caso, difatti, che l’interpretazione di un siffatto inciso oscilli: tra quella di coloro che lo ritengono segnatamente pertinente all’attività amministrativa c.d. «discrezionale» della P.A., ed in particolare ad un atto di tal fatta che il p.u. avrebbe già deciso di emanare prima della condotta criminosa intrapresa dal reo; a quella di coloro che lo giudicano del tutto inutile, rilevando come, in ogni caso, anche i poteri discrezionali si eserciterebbero mediante atti di ufficio; sino a quella di chi lo ritiene riferito non già ad uno specifico atto del funzionario pubblico, bensì, più in generale, all’esercizio della sua attività indiscriminatamente considerata, che verrebbe indirizzata in senso più favorevole al reo. Forse, però, non a torto si è da tempo evidenziato come l’utilizzo della violenza o della minaccia produca giocoforza un effetto costrittivo, e che quindi ben difficilmente potrà parlarsi di mera «influenza».
3.3. Da parte propria, l’art. 337 c.p. sanziona chiunque utilizzi la violenza o la minaccia «per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza». La fattispecie in esame condivide con la precedente la struttura di fondo, ossia la necessaria presenza di una condotta violenta o minacciosa funzionalmente orientata ad ottenere un determinato risultato offensivo di interessi propri della P.A. Tuttavia, mentre nel caso dell’art. 336 c.p. ciò a cui la condotta mira è il costringimento del pubblico funzionario a compiere od omettere un certo atto, pregiudicando così la genuinità dell’agire amministrativo, nel caso dell’art. 337 c.p. il soggetto attivo intende «opporsi», «resistere» al funzionario «mentre» egli «compie» (id est: sta compiendo) un atto del proprio ufficio, così attentando al libero e spedito svolgersi dell’azione amministrativa. Da qui, il diverso campo applicativo delle fattispecie in rilievo, che, secondo una consolidata interpretazione, andrebbe distinto secondo un criterio “cronologico”. Si sostiene, infatti, che sino a che la violenza o la minaccia vengano utilizzate prima del compimento dell’atto, ed al fine di condizionarne il contenuto o la sua stessa emissione, risulterà applicabile il delitto dell’art. 336 c.p., che appunto tutela la libera formazione della volontà dei pubblici poteri; là dove, invece, il contegno violento o minaccioso dovesse intervenire dal momento in cui l’attività funzionale dell’agente pubblico ha inizio, e sin tanto che essa è in corso di svolgimento, la fattispecie azionabile risulterebbe quella dell’art. 337 c.p., che è volta appunto a salvaguardare la libertà di azione della P.A. Naturalmente, il criterio risulterà di più facile o difficile utilizzo nella misura in cui, nelle circostanze concrete, risulterà più o meno agevole individuare con precisione il momento a partire dal quale l’attività del pubblico funzionario potrà dirsi «iniziata».
3.4. La condotta del soggetto attivo deve assumere le forme di una «opposizione», e cioè deve essere tale da impedire, intralciare, ovvero compromettere, anche solo parzialmente, la regolarità del compimento dell’atto. Proprio il fatto che la violenza o la minaccia debbano concretare una «opposizione» conferma, a fortiori rispetto all’art. 336 c.p., che non è strettamente necessario che esse si dirigano sulla persona fisica del funzionario pubblico, potendo quindi abbattersi anche sulle cose@, su soggetti terzi@, o addirittura, secondo una discutibile giurisprudenza, sullo stesso agente@, sebbene a tale ultimo riguardo non si possa sottacere la trasfigurazione che la figura della «minaccia» così subirebbe, posto che la prospettazione del male ingiusto messa in atto dal reo non riguarderebbe «altri», come invece richiede espressamente l’art. 612 c.p., bensì lo stesso soggetto attivo. Il reato deve considerarsi perfetto nel momento in cui la condotta criminosa risulti in concreto idonea ad opporsi al compimento dell’atto amministrativo, indipendentemente dal fatto che l’intimidazione del funzionario si sia poi tradotta nella pratica frustrazione del suo dovere d’ufficio, e quindi abbia impedito che l’attività amministrativa già iniziata sia stata conclusa.
Sebbene il nucleo della fattispecie in discorso sia innegabilmente costituito dalla opposizione all’attività della P.A., tanto da caratterizzarne il suo stesso nomen iuris, non va dimenticato che non ogni forma di resistenza al dispiegarsi dell’azione amministrativa risulta per ciò solo penalmente rilevante, essendo tipica soltanto quella attuata con violenza o minaccia. Tale richiamo, in effetti, non appare di poco significato, tanto sotto il profilo ideologico che applicativo. Nel primo senso, la necessità di una condotta di tal fatta appalesa come sul cittadino non gravi alcun dovere di collaborazione verso la P.A. Sul versante attuativo, ne deriva che l’art. 337 c.p. non sarà applicabile laddove la condotta di opposizione risulti priva delle necessarie note di aggressività o intimidazione, come avviene nelle ipotesi di c.d. «resistenza passiva», che la giurisprudenza ha rinvenuto, ad esempio, nel non aprire la porta nonostante la prescritta ingiunzione, nel rimanere del tutto inerte per impedire la propria traduzione dopo l’arresto, nel gettarsi a terra per inibire ad un mezzo della Polizia il passaggio, nell’aggrapparsi od incatenarsi ad appigli per non essere trascinato via, nel darsi alla fuga alla vista degli agenti di pubblica sicurezza, e via discorrendo.
3.5. Fattispecie del tutto peculiare di “resistenza” al dispiegarsi della azione amministrativa può considerarsi pure quella dell’art. 337-bis c.p., introdotta dalla l. n. 92 del 2001, che, nell’inasprire la risposta dell’ordinamento al contrabbando, al tempo in forte recrudescenza, intese anche reprimere un precipuo fenomeno criminale ad esso collegato. Si trattava, in particolare, della tendenza di certe associazioni per delinquere dedite allo smercio di merci contrabbandate a modificare i mezzi adibiti al trasporto di queste ultime in modo che essi risultassero idonei a fronteggiare, anche con manovre di speronamento, l’intervento delle forze di polizia, ciò che aveva finito per infliggere a queste ultime significativi danni materiali e per esporre a rilevante pericolo la vita e l’incolumità fisica dei pubblici agenti. Da qui, l’introduzione nel codice penale del predetto art. 337-bis, con il quale si è inteso reprimere il fenomeno in questione, anzitutto incriminando chiunque appronti, custodisca od occulti «mezzi di trasporto di qualsiasi tipo che, rispetto alle caratteristiche omologate, presentano alterazioni o modifiche o predisposizioni tecniche tali da costituire pericolo per l’incolumità fisica degli operatori di polizia», ed inoltre prevedendo la revoca dell’autorizzazione amministrativa all’esercizio di determinate attività per quei soggetti che, in possesso della stessa, abbiano commesso il reato de quo.
Considerando la sua ratio si tutela, sembrerebbe quindi possibile accostare la fattispecie delittuosa qui in rilievo a quelle recate dagli artt. 336 e 337 c.p., come del resto la sua numerazione sembra suggerire. Tuttavia, ad una più attenta considerazione risulta chiaro come la figura criminosa prevista dall’art. 337-bis c.p. presenti caratteri di specificità tali da allontanarla in modo significativo dal modello di tutela espresso dalle altre due fattispecie richiamate. Si ricorderà infatti che, pur lasciando queste ultime trasparire la considerazione del legislatore per la salvaguardia dell’incolumità fisica e della libertà di autodeterminazione del pubblico funzionario, fosse chiaro come il bene giuridico direttamente tutelato dalle stesse fosse da rinvenire nel libero e spedito esercizio dell’azione amministrativa, considerato che sia l’art. 336 che l’art. 337 c.p. contengono espressi riferimenti ad un «atto dell’ufficio o del servizio» che il pubblico agente sta già compiendo o che il reo gli vuole fare compiere ovvero omettere. Nell’ipotesi criminosa dell’art. 337-bis c.p., invece, l’interesse della P.A. al regolare svolgimento della propria attività sembra collocarsi più sullo sfondo, dato che ciò che espressamente – e quindi direttamente – il legislatore biasima è il «pericolo per l’incolumità fisica degli operatori di polizia» che, in astratto, un mezzo di trasporto modificato in una determinata maniera può fare insorgere.
3.6. Peraltro, anche la reale soglia sulla quale siffatto «pericolo» si attesta presenta una particolarità che vale la pena segnalare, specie ove si continui a tenere come riferimento i fatti tipici descritti dagli artt. 336 e 337 c.p. In tali casi, infatti, è agevole constatare la presenza di una condotta di attuale utilizzo della violenza o della minaccia, che deve viepiù risultare concretamente idonea ad influire sullo svolgimento dell’attività di ufficio del funzionario pubblico. Diversamente, nel caso dell’art. 337-bis c.p. il legislatore ha incriminato condotte largamente anticipatorie dell’offesa arrecabile alla persona fisica del pubblico funzionario, poiché esse risultano addirittura prodromiche all’utilizzo vero e proprio di quei mezzi che, per le loro mutate caratteristiche, possono risultare a propria volta pericolosi per l’incolumità del personale di polizia. Non è infatti un caso che da più parti il reato in questione sia stato inscritto nella categoria dei cc.dd. «delitti di ostacolo», ovverosia tra quelle fattispecie che incriminano non già comportamenti direttamente offensivi di un certo bene giuridico, bensì atti o anche situazioni di fatto che il legislatore ha ritenuto costituire una sorta di “premessa idonea” alla commissione di futuri reati, che viene appunto così «ostacolata». Ma se, ed eventualmente a quali condizioni, tale tecnica di vistosa anticipazione della tutela penale sia costituzionalmente accettabile è, notoriamente, questione assai discussa.
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