testi ed ipertesti

Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta

4. Buon costume e libertà costituzionali: l’opera artistica o scientifica e le pubblicazioni a mezzo stampa

 

 4.1. La tutela del buon costume presenta significative interferenze con alcuni diritti e libertà che la Carta costituzionale sancisce. Ed invero, occorre anzitutto evidenziare come, dopo avere solennemente affermato l’esistenza «diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero», l’art. 21 Cost. abbia tuttavia cura di vietare, all’ultimo comma, «le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume». Altre volte la correlazione tra tutela del buon costume e libertà costituzionali è del tutto indiretta, ma non per questo meno evidente, laddove si consideri che il riconoscimento delle seconde si riverbera logicamente sull’ampiezza della prima, ora riducendone l’ampiezza, ora aumentandola. Nel primo senso sembra operare, ad esempio, l’art. 33, comma 1, Cost., che, definendo «libere» l’arte, la scienza ed il loro insegnamento, richiama evidentemente l’esigenza di bilanciare tali libertà con la repressione penale dell’osceno. Nel secondo senso assume invece rilievo l’art. 31, comma 2, Cost., il quale, nell’imporre allo Stato di «protegge[re] l’infanzia e la gioventù», rende quanto meno opportuno, a tacere d’altro, un controllo sul contenuto di ciò che i mezzi di comunicazione offrono alla platea dei fruitori minorenni.

 Per vero, già il legislatore del 1930 si era mostrato sensibile alla necessità di contemperare la repressione dell’osceno e la tutela dei minori con il nobile interesse dell’uomo verso le arti e le scienze. Con una innegabile lungimiranza, infatti, l’art. 529, comma 2, c.p. dispone che «Non si considera oscena l’opera d’arte o l’opera di scienza, salvo che, per motivo diverso da quello di studio, sia offerta in vendita, venduta o comunque procurata a persona minore degli anni diciotto», considerato che ancora oggi, pur dopo la vasta opera depenalizzazione in materia operata dal più volte richiamato d.lgs. n. 8 del 2016, l’art. 528, commi 3, n. 2, e 4, c.p. continua a considerare reato la condotta di chi «dà pubblici spettacoli teatrali o cinematografici, ovvero audizioni o recitazioni pubbliche, che abbiano carattere di oscenità». Orbene, se la ratio della specificazione contenuta nel predetto art. 529, comma 2, c.p. risulta senz’altro chiara e condivisibile, tanto più alla luce del quadro costituzionale poc’anzi richiamato, assai più problematica ne risulta l’applicazione pratica, considerata la difficoltà di definire ciò che è opera d’arte o di scienza. La questione si è posta, in particolar modo, per le produzioni cinematografiche, come dimostra il celebre caso della pellicola “Ultimo tango a Parigi” diretta da Bernardo Bertolucci, che per più di un decennio, tra gli anni 70’ e 80’ del secolo scorso, ha affaticato la giurisprudenza italiana. In quello come in altri contesti, per vero, la soluzione è stata quella – e così non poteva che essere – di riconoscere al giudice un ampio potere di apprezzamento di quel “carattere artistico” che prevale sulla possibile obiettiva oscenità della pellicola. Le pronunce in materia, infatti, insistono sulla necessità per il magistrato di procedere ad una «valutazione globale ed adeguata dell’opera dal punto di vista estetico e catartico», tesa ad accertare, mediante «canoni estetici e non secondo le cognizioni dell’uomo medio», che, ad esempio, il film manifesti «un qualche contenuto di intuizione universale» ovvero costituisca «strumento di elevazione spirituale o di godimento estetico», e che, in ogni caso, «sussista un equilibrio tra il contenuto e la forma, tra il messaggio che l’autore propone ed i mezzi di cui egli si è avvalso»@. Com’è evidente, si tratta di valutazioni che fisiologicamente risentono delle diverse sensibilità personali dell’interprete, le quali, tuttavia, non potranno che essere ragionevolmente orientate da un ausilio peritale.

 4.2. In ogni caso, l’assenza di riscontri giurisprudenziali recenti testimonia come la rilevanza pratica della questione si sia fortemente affievolita con il trascorrere del tempo, forse anche per l’accresciuta insofferenza dell’uomo moderno verso le forme di controllo della libertà di manifestazione del pensiero, spesso viste, a torto od a ragione, come intollerabili strumenti di censura. D’altronde, non va dimenticato che tra i compiti che le arti storicamente svolgono vi è anche quello, per l’appunto, di abbattere – si spera in senso autenticamente progressista – i vari feticci morali o moraleggianti che ogni società si crea, consentendole di avanzare nei propri costumi.

 Più agevole parrebbe invece l’individuazione di ciò che dovrebbe intendersi per «opera di scienza», sia perché le modalità del procedere proprie della scienza, ovverosia il c.d. «metodo scientifico», appaiono maggiormente canonizzate rispetto a quelle dell’arte, sia perché le branche della scienza che possono lambire in modo non pretestuoso la sfera del pudore sessuale risultano più circoscritte. A tale riguardo, vi è una sostanziale concordia di opinioni nel definire l’opera di carattere scientifico come quella che risulti compiere una analisi critica, documentativa o di ricerca rivolta alla dimostrazione di una tesi conclusiva e che si caratterizzi, segnatamente, per rigore obiettivo, terminologico ed espositivo e per la serietà dell’indagine condotta, nel cui contesto, comunque, le parti oscene dovrebbero risultare limitate e strettamente pertinenti@.

 4.3. Per afferenza con la trattazione qui intrapresa, un pur rapido cenno merita la legislazione nata attorno alle altre pubblicazioni a mezzo stampa, le quali, al momento in cui tale normativa vedeva la luce, costituivano senza ombra di dubbio il più diffuso veicolo di propagazione del pensiero. Al riguardo, e senza pretesa alcuna di completezza, sia qui sufficiente segnalare l’art. 1 l. n. 1591 del 1960, che espressamente sanziona ai sensi degli artt. 528 e 725 c.p. la fabbricazione, l’affissione o l’esposizione in luogo pubblico o esposto al pubblico di disegni, immagini, fotografie od oggetti figurati comunque destinati alla pubblicità che «offendono il pudore o la pubblicità decenza», considerati, però, «secondo la particolare sensibilità dei minori degli anni diciotto e le esigenze della loro tutela morale». Non minore rilievo rivestono pure gli artt. 14 e 15 l. n. 47 del 1948, che prevedono esplicitamente l’applicazione dell’art. 528 c.p. sia nel caso in cui la condotta abbia ad oggetto «pubblicazioni destinate ai fanciulli ed agli adolescenti» che dovessero risultare, secondo la «sensibilità ed impressionabilità» di tali soggetti, «idonee ad offendere il loro sentimento morale od a costituire per essi incitamento alla corruzione, al delitto o al suicidio», sia nel caso in cui essa cada su «stampati» che, nel descrivere o illustrare «con particolari impressionanti o raccapriccianti avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari», risultino idonei a «turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare» ovvero a provocare «il diffondersi di suicidi o delitti». A parziale argine delle disposizioni da ultimo richiamate sembra posto l’articolo unico della l. n. 355 del 1975, che esonera dall’applicazione delle stesse «i titolari e gli addetti a rivendita di giornali e di riviste per il solo fatto di detenere, rivendere, o esporre, nell’esercizio normale della loro attività, pubblicazioni ricevute dagli editori e distributori autorizzati ai sensi delle vigenti disposizioni», purché, però, «non […] siano esposte, in modo da renderle immediatamente visibili al pubblico, parti palesemente oscene delle pubblicazioni o quando dette pubblicazioni siano vendute ai minori di anni sedici», applicandosi altrimenti in tale ultimo caso la reclusione sino ad un anno.

 Come può agevolmente constatarsi, si tratta di una normativa che, nella chiarezza della propria ratio ispiratrice, sembra espressione, in più parti, di un certo qual moralismo. Del resto, molto si discute sulla portata del limite del «buon costume» previsto dall’art. 21, comma 6, Cost., sul quale la normativa sopra richiamata pare in larga misura fondarsi@, non essendo chiaro se esso debba intendersi in senso stretto, e quindi in modo analogo a quanto già precisato agli effetti del Titolo IX, Libro II del codice penale, ovvero in senso ampio, ossia quale rinvio ai principî etici comunemente accolti. In ogni caso, ed a prescindere dai profili di costituzionalità di siffatta disciplina, evidente appare l’eterogeneità degli interessi da essa tutelati, che spaziano dalla moralità in senso lato fino all’ordine pubblico, e quindi l’imbarazzo che l’interprete incontra nel riconnettere gli stessi all’oggettività protetta dagli artt. 528 e 725 c.p., che nondimeno risultano espressamente richiamati.

 4.4. Una cursoria segnalazione merita, infine, l’art. 30, commi 1 e 2, della l. n. 223 del 1990 sul sistema radiotelevisivo pubblico e privato, nota ai più come «legge Mammì», il quale dichiara espressamente applicabili gli artt. 528 c.p., 14 e 15 l. n. 47 del 1948 al concessionario privato o pubblico, ovvero alla persona da loro delegata al controllo, nel caso in cui vengano trasmessi programmi radiofonici o televisivi che «abbiano carattere di oscenità». Varie altre disposizioni, poi, vietano, sotto la comminatoria di sanzioni extrapenali, le trasmissioni televisive che possono comunque risultare «nocive» per i minori (V., ad esempio, l’art. 37 del d.lgs. n. 208 del 2021).

 

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