Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta
2. «Oscenità» e «indecenza»
2.1. Non v’è dubbio che i sostantivi «moralità» e «buon costume» evochino semanticamente, specie se coniugati con l’aggettivo «pubblico», concetti assai elastici, capaci di attrarre al proprio interno l’intera coscienza etica di un popolo, della quale fanno parte, solo per fare un esempio, anche il divieto di uccidere e quello di rubare. Nondimeno, il contenuto delle incriminazioni recate dal Titolo IX qui in rilievo sembra circoscrivere l’oggettività tutelata dalle fattispecie che lo compongono alla sola “moralità sessuale”, da intendersi precipuamente come l’insieme delle manifestazioni dell’impulso libidinoso proprie di ogni essere umano. In tale prospettiva, le espressioni «moralità pubblica» e «buon costume» altro non costituirebbero se non una endiadi che vuole appunto alludere al complesso delle possibili estrinsecazioni dell’istinto sessuale che non avvengano privatamente. A tale concetto, infatti, sembra nella sostanza riferirsi l’art. 529, comma 1, c.p., il quale, nel fornire la nozione di «osceno» agli effetti penali, ossia la caratterizzazione della condotta di principio antitetica al contenuto del bene giuridico tutelato, parla di «atti [ed] oggetti «che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore»: sostantivo, quest’ultimo, che allude genericamente al sentimento di riserbo che dovrebbe circondare le manifestazioni della sessualità, naturalmente variabile in base al contesto storico-sociale di riferimento.
Da qui, tuttavia, i problemi interpretativi, poiché quella che l’art. 529, comma 1, c.p. presenta pretenziosamente come una «nozione», ossia un enunciato linguistico che dovrebbe definire in modo puntuale un certo concetto agli effetti penali, si rivela invece, a ben vedere, una formula assai aperta, non avendo il legislatore ulteriormente specificato ciò che è (id est: i criteri in base ai quali accertare) il «comune sentimento» del pudore. Né di grande aiuto parrebbe rivelarsi la Relazione del Guardasigilli, che parla di «pudore “medio”, costituito dall’insieme delle norme consuetudinarie di civile convivenza, in rapporto alla sessualità», per di più da valutare con «criterio di relatività, dovendo mettersi in rapporto con la morale di un determinato popolo in un determinato momento storico»@. Ma d’altronde non poteva che essere così, poiché, come si è anticipato, ciò che costituisce “valore morale” in seno ad una comunità sociale non può che rifuggire, al di là forse di un nucleo contenutistico minimo, da precise definizioni e risentire vieppiù dei mutamenti di costume e di mentalità imposti dal tempo. A tale approdo, del resto, è giunta anche la Corte costituzionale, che ha respinto le censure di indeterminatezza più volte mosse nel tempo agli artt. 527 ss. c.p., nella consapevolezza che riferimenti come quelli al «comune sentimento del pudore» o alla «morale» (sessuale) risultano «non suscettibili di una categorica definizione», poiché essi «vari[ano] notevolmente secondo le condizioni storiche d’ambiente e di cultura», pur tuttavia precisando – forse con un poco di ottimismo – che «non vi è momento in cui il cittadino, e tanto più il giudice, non siano in grado di valutare quali comportamenti debbano considerarsi osceni secondo il comune senso del pudore, nel tempo e nelle circostanze in cui essi si realizzano»@.
2.2. Come è perciò naturale, grava più che mai sul giudice il compito di farsi interprete del pubblico pudore e definire, di conseguenza, ciò che in un determinato momento storico debba qualificarsi come «osceno». Al fine, tuttavia, di evitare che un giudizio già di per sé così elastico trascenda in un incontrollabile arbitrio giudiziario, dottrina e giurisprudenza hanno nel tempo individuato anzitutto dei minimi criteri-guida ai quali, di massima, il magistrato dovrebbe ispirarsi nel valutare la natura oscena di una determinata condotta@. In questa prospettiva, si è affermato, ad esempio, che: a) la natura “pubblica” dell’oggettività tutelata impone al giudice di prescindere dalla sensibilità di coloro che, in ipotesi, avessero assistito al fatto o sporto denuncia all’Autorità; b) il parametro di misurazione dell’osceno non deve essere di tipo statistico, non potendosi accertare scientificamente ciò che la maggioranza pensa, bensì qualitativo, dovendo il giudice interpretare il sentimento dell’uomo “normale”, ossia dell’individuo maturo, non affetto né da fobie né da manie sessuali, che viva nell’attuale momento storico, e quindi che abbia presenti i costumi generalmente accettati, inclusi quelli veicolati dai mass media; c) respinte pregiudizialmente le antistoriche concezioni cc.dd. «deontologiche» del pudore, che pretenderebbero di reprime sempre e comunque le offese ad esso ex se considerate, il limite dell’osceno punibile è oggi costituito dal consenso del suo fruitore, così che non sussisterà pregiudizio al sentimento del pudore – sebbene esso continui a qualificarsi come “pubblico” – laddove l’atto a contenuto sessuale sia rivolto ad una determinata categoria di soggetti liberamente determinatasi ad assistervi.
2.3. Ciò premesso, giova segnalare come la giurisprudenza tenda poi, nel concreto, a ricavare il concetto di osceno “per specificazione” rispetto a quello – giudicato limitrofo – di «pubblica decenza», al quale si riferiscono gli artt. 725 («Commercio di scritti, disegni o altri oggetti contrari alla pubblica decenza») e 726 c.p. («Atti contrari alla pubblica decenza. Turpiloquio»): previsioni normative, queste, che in origine recavano altrettanti reati contravvenzionali, ma che ad oggi, in seguito agli interventi di depenalizzazione operati prima dal d.lgs. n. 507 del 1999 e poi dal d.lgs. n. 8 del 2016, contengono meri illeciti amministrativi, sulla cui adeguatezza sanzionatoria, peraltro, la Corte costituzionale ha recentemente dubitato@. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, difatti, la «pubblica decenza» designerebbe quel più generale senso di convenienza e di decoro – anche dei costumi sessuali – che, secondo il grado di civiltà di un popolo ed il momento storico, dovrebbe informare il comportamento degli individui al di fuori degli spazi strettamente privati, là dove il concetto di «osceno» avrebbe a che fare con le sole manifestazioni della sessualità umana che suscitino nell’uomo medio una reazione di disgusto. In altre parole, la differenza tra «osceno» ed «indecente» dovrebbe (problematicamente) cogliersi sotto il profilo “quantitativo”, nel senso che «indecente» deve ritenersi l’atto che, pur potendo investire la sfera sessuale, appare come manifestazione indiretta o secondaria di lascivia che suscita in chi guarda disagio, fastidio o disapprovazione, non raggiungendo così il grado dell’oscenità, che invece farebbe nascere negli astanti sentimenti di repulsione, disgusto o desiderio sessuale@. Ed è così che la giurisprudenza, per vero non sempre in modo univoco, ha ricondotto ai rigori dell’art. 726 c.p., ad esempio, la condotta di chi si sdrai nudo su di un tavolo a prendere il sole in una area dedicata al pic-nic@ o in una spiaggia non appartata, ed alla presenza di numerose persone@; quella di chi orini in una pubblica via in modo ben visibile ad altri@; quella di chi si palpeggi i genitali davanti a più persone@; quella infine di chi, in una pubblica via, vesta in modo così succinto da fare scorgere parti dei propri glutei e seni@. Al contrario, e continuando a volgere lo sguardo alla casistica, confluirebbero nell’alveo dell’osceno – salva ora la specificità di contesto della quale si dirà – i comportamenti di chi mostri a dei minori una rivista pornografica invitandoli alla visione@, di colui che compia in pubblico atti di autoerotismo@, di coloro che intrattengano un rapporto sessuale all’interno di un’auto parcheggiata in una pubblica piazza, senza porre in essere alcuna cautela per non essere visti@.
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