testi ed ipertesti

Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta

Capitolo XXVI | I delitti contro la moralità pubblica e il buon costume

di Gianfranco Martiello

 

1. Ricognizione della materia, tra passato e presente

 

 1.1. Il Titolo IX, Libro II, del codice penale, rubricato «Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume», consisteva originariamente in tre capi. Il primo, dedicato ai delitti contro la «libertà sessuale» (artt. 519-526); il secondo, intitolato alle «offese al pudore e all’onore sessuale» (artt. 527-538), conteneva in realtà una nutrita serie di fattispecie criminose intese a reprimere sia – e propriamente – il compimento in pubblico di atti od attività ritenuti «osceni» (artt. 527, 528, 529), sia le offese non violente alla intangibilità sessuale dei minori, ossia la «corruzione» di questi ultimi (art. 530), sia quei comportamenti tesi a latu senso costringere taluno a prostituirsi o comunque ad incoraggiare la prostituzione ovvero a trarvi profitto al di fuori del sistema di regolamentazione di quel fenomeno allora vigente, incentrato, come noto, sulle cc.dd. «case di tolleranza» autorizzate dall’Autorità pubblica; il terzo, infine, comprensivo di disposizioni comuni ai capi precedenti (artt. 539-544).

 Già un fugace sguardo agli attuali artt. da 519 a 544 c.p. dimostra, però, come ben poco sia oggi rimasto di tale complesso normativo, e ciò per ragioni tutto sommato non difficili da comprendere, almeno laddove si consideri l’intuitiva mutevolezza storica dei riferimenti socio-concettuali quali sono, ad esempio, quelli alla «moralità pubblica», al «buon costume», alla «libertà sessuale», all’«onore sessuale», ecc. A tale riguardo, occorre precipuamente considerare, in primo luogo, come il carattere del tutto transeunte del concetto di «osceno», che nella prospettiva codicistica rappresenta il contegno umano che nega l’interesse formalmente tutelato dalle fattispecie qui in rilievo, fosse stato preventivato dagli stessi codificatori, se è vero – come si dirà – che la definizione datane dall’art. 529 c.p. risulta ictu oculi “aperta” alla mutevole sensibilità sociale, della quale il giudice è chiamato a farsi interprete; in secondo luogo, come l’evolversi dei costumi sociali fisiologicamente condizioni pure il novero degli interessi ritenuti pertinenti all’ambito della «moralità pubblica e del buon costume», tanto più ove si consideri che la suddetta sistematica codicistica, oltre ad essere culturalmente figlia del proprio tempo, come appare fisiologico, si caratterizzò viepiù per una artificiosa quanto ideologica “pubblicizzazione” di taluni oggetti di tutela, che già allora venivano altrove ritenuti propri della persona piuttosto che dello Stato-comunità; in terzo ed ultimo luogo, come il trascorrere del tempo sia fatalmente destinato a modificare l’apprezzamento sociale del “valore” che i cittadini sono disposti a riconoscere al bene giuridico protetto dagli artt. 519 ss. c.p., a sua volta decisivo nell’orientare l’esito del giudizio di «meritevolezza» della tutela penale eventualmente da riconoscere a tale interesse.

 1.2. Proprio l’appena segnalata relatività storica sia dei confini che della rilevanza sociale del bene giuridico «moralità pubblica e buon costume» spiega il progressivo processo di depauperamento e di trasformazione che le figure criminose conchiuse nel richiamato Titolo IX hanno nel tempo subito. Sotto il primo versante, viene cronologicamente in rilievo anzitutto la l. 20 febbraio 1958, n. 75, nota come «legge Merlin», che ha provveduto a sostituire le originarie fattispecie degli artt. da 531 a 536 c.p. con una serie di nuove incriminazioni che meglio si adattavano all’inedita regolamentazione del meretricio che tale legge aveva introdotto. Ma non v’è dubbio che l’intervento più incisivo sul contenuto del suddetto Titolo IX sia stato quello operato dalla l. 15 febbraio 1996, n. 66, che ne ha abrogato l’intero capo primo e varie disposizioni del capo terzo. A tale riguardo, basterà qui segnalare come, giudicata non più attuale la concezione che vedeva nella libertà sessuale un mero profilo della «moralità pubblica» piuttosto che un attributo della persona, preso atto del carattere antistorico di alcune incriminazioni, quali ad esempio le varie ipotesi di «ratto», e verificata, infine, l’assenza nell’originario corpus normativo di previsioni criminose aderenti alla nuova realtà empirico-criminosa venutasi a creare nel tempo, il legislatore procedette ad una profonda rilettura dei così detti “reati sessuali”, i quali, per quanto importa qui evidenziare, furono espunti dal predetto Titolo IX e riallocati entro i «Delitti contro la libertà personale» di cui al Titolo XI, capo II, sezione II.

 1.3. Sotto il secondo versante, è da segnalare come, anzitutto, già l’art. 30 del d.lgs. n. 507 del 1999 avesse degradato il delitto di atti osceni «colposi», originariamente punito con la sola multa, ad un illecito amministrativo pecuniario, avendo con ciò inteso ritrarre il raggio operativo della sanzione penale al di qua dei fatti evidentemente ritenuti bagatellari. È tuttavia con l’art. 2, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 8 del 2016, che il legislatore sembra avere mutato più in profondità il succitato giudizio di «meritevolezza» di pena rispetto a quei fatti che gli originari artt. 527, comma 1, e 528 c.p. incriminavano a titolo di «Atti osceni» e di «Pubblicazioni e spettacoli osceni». Sebbene sia indubbio che la vasta opera di depenalizzazione intrapresa dal decreto in questione – non a caso ad essa esplicitamente intitolato – risultasse funzionale anzitutto al perseguimento di obiettivi eminentemente pratici di deflazione processuale, dai lavori preparatori sia della legge-delega n. 67 del 2014 che del conseguente d.lgs. n. 8 del 2016 emerge come tra i criteri utilizzati dal legislatore per decidere sulla trasformazione di specifiche figure di reato in illeciti punitivo-amministrativi vi fosse anche quello della «aderenza» della reazione sanzionatoria in origine prevista rispetto «all’attuale disvalore sociale dell’illecito». Orbene, l’adozione di un tale parametro ha di fatto portato, in primo luogo, alla degradazione dei delitti di «Atti osceni» dell’art. 527, commi 1 e 3, c.p. e di «Pubblicazioni e spettacoli osceni» di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 528 c.p. in altrettanti illeciti amministrativi sanzionati in via meramente pecuniaria; in secondo luogo, ad un inedito “riorientamento offensivo” della tradizionale figura delittuosa degli atti osceni, che l’art. 527, comma 2, c.p. reprime ora con la pena esclusivamente se compiuti «all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori e se da ciò deriva il pericolo che essi vi assistano»; in terzo ed ultimo luogo, al mantenimento della risposta penale per le specifiche condotte correlate alle pubblicazioni ed agli spettacoli osceni previste dai commi 3 e 4 dell’art. 528 c.p.

 1.4. Attualmente, quindi, il contenuto del più volte richiamato Titolo IX appare circoscritto alle sole «offese al pudore e all’onore sessuale» contemplate dal suo capo II, nel cui perimetro trovano oggi collocazione le fattispecie penali e punitivo-amministrative degli artt. 527 e 528 c.p. e la definizione resa dall’art. 529 c.p. Per vero, rimarrebbero inoltre da considerare la misura di sicurezza dell’art. 538 c.p., che tuttavia si riferisce ai reati in materia di prostituzione, da tempo trasferiti, come già detto, nella «legge Merlin», nonché l’art. 540 c.p., che «agli effetti della legge penale», ma salvo i limiti di prova stabiliti dalla legge civile, espressamente parifica i figli nati al di fuori del matrimonio a quelli nati all’interno dello stesso: disposizione, questa, che, pensata in origine per derimere eventuali questioni interpretative tipiche dell’ambito applicativo dei reati sessuali o del diritto penale della famiglia, sembra ora aver perso la propria specifica conferenza al Titolo in esame.

 

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