Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta
7. La tortura
7.1. Nell’ordinamento internazionale, da tempo il ripudio della tortura ha carattere assoluto e inderogabile. L’art. 2 della Convenzione ONU contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumani e degradanti (CAT) del 1984, al primo comma, prevede che “ogni Stato Parte prende provvedimenti legislativi, amministrativi, giudiziari ed altri provvedimenti efficaci per impedire che atti di tortura siano compiuti in un territorio sotto la sua giurisdizione”, precisando, al secondo comma, che “nessuna circostanza eccezionale, qualunque essa sia, si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, d’instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato eccezionale, può essere invocata in giustificazione della tortura”. Parimenti, l’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sancisce che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
Nell’ordinamento interno, l’art. 13, comma 4, Cost., contemplando l’unico obbligo di incriminazione sancito dalla nostra Costituzione, dispone che: “E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione della libertà”@.
Nondimeno, nel nostro ordinamento il delitto di Tortura è stato introdotto, agli artt. 613–bis e 613–ter c.p., solo con l. n. 110 del 2017, verosimilmente anche sotto la spinta delle sentenze di condanna pronunciate nei confronti dell’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in relazione ai drammatici episodi di violenza verificatisi durante il G8 genovese del 2001@. Sennonché, la disciplina nazionale che è scaturita dal tentativo di dare adempimento ai predetti obblighi di incriminazione solleva numerosi problemi interpretativi@.
7.2. Il bene giuridico protetto dalla nuova fattispecie è da individuare, in primis, nella libertà morale e nella dignità della persona, essendo la tortura – come evidenziato anche dalla Corte EDU – una condotta finalizzata a umiliare la vittima disconoscendone e offendendone, fino all’annullamento, l’umanità e la dignità appunto. In ogni caso, la fattispecie è destinata ad assumere natura plurioffensiva. Alla tutela della libertà morale si affianca, infatti, anche la tutela della integrità psico–fisica, posto che la condotta deve cagionare acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, e, nell’ipotesi qualificata, realizzata da pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio, la tutela del sentimento di fiducia dei cittadini nelle istituzioni, nonché l’imparzialità e il buon andamento della P.A.
7.3. L’art. 613-bis comprende nel nuovo reato sia il fenomeno della tortura c.d. comune, sia quello della c.d. tortura di Stato.
Il primo comma contempla la fattispecie di tortura c.d. comune, che viene generalmente qualificata come reato comune. In realtà anche in questa ipotesi è richiesto un peculiare rapporto della vittima con il reo, posto che la vittima deve essere affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza del secondo.
Molte delle fonti internazionali, invero, delimitano la nozione di tortura alla sola condotta tenuta da un funzionario pubblico contro un privato, in quanto la peculiare gravità del fenomeno sarebbe da ricercare proprio nell’abuso del potere pubblico e nel conseguente effetto di perdita radicale di fiducia nello Stato. A questo si aggiunga che le condotte dei privati riconducibili alla fattispecie in esame potrebbero già risultare penalmente rilevanti ai sensi di altre ipotesi di reato (si pensi, in particolare, alla fattispecie di maltrattamenti).
I soggetti passivi vengono dalla norma raggruppati in tre categorie: le persone private della libertà personale; quelle affidate alla custodia o autorità o potestà o cura o assistenza dell’agente; quelle che si trovano in una condizione di minorata difesa. La prima tipologia copre le ipotesi più frequenti di tortura, quelle cioè in cui il soggetto si trova in vinculis.
7.4. L’art. 613-bis configura un reato di evento a condotta vincolata. Può esservi tortura, infatti, solo se la condotta viene realizzata attraverso una delle modalità descritte dalla norma, nel senso che l’evento (acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico) deve essere cagionato, alternativamente, attraverso condotte integranti violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà. Si ritiene che la violenza possa consistere anche in atti di violenza impropria (tecniche di privazione del sonno, sottoposizione a rumori assordanti, mancata somministrazione di acqua e/o cibo). Per quanto concerne la nozione di crudeltà, è opportuno ricordare come il nostro ordinamento si avvalga di detto concetto nell’ambito delle circostanze aggravanti (art. 61, n. 4, c.p.). Mutuando, dunque, l’elaborazione riferita a siffatta previsione@, si ritiene che le modalità della condotta debbano rendere evidente la volontà di infliggere alla vittima sofferenze aggiuntive, che esulano dal normale processo di causazione dell’evento ed esprimano un atteggiamento interiore particolarmente riprovevole@.
La fattispecie incriminatrice prevede, inoltre, che il fatto debba essere commesso mediante più condotte ovvero debba comportare un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. La prima modalità concerne inevitabilmente l’ipotesi in cui il reato sia commesso con violenze o minacce, posto che già la locuzione al plurale esige la molteplicità di atti. Viceversa, la condotta che si concretizza nell’agire con crudeltà può rilevare anche se non ripetuta (dunque, anche se realizzata con un solo comportamento), là dove configuri un trattamento inumano e degradante@. In tale prospettiva si comprendono le precisazioni della giurisprudenza, in forza delle quali “il delitto di tortura è stato configurato dal legislatore come reato eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell’incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”@.
7.5. L’evento deve consistere alternativamente (o cumulativamente) in acute sofferenze fisiche o in un verificabile trauma psichico. Si tratta, in entrambi i casi, di locuzioni non facilmente interpretabili, che aprono ampi margini alla discrezionalità del giudice.
In relazione alla descrizione del primo evento, occorre innanzitutto comprendere quale possa essere la soglia di gravità che consente al giudice di ritenere integrata l’acuta sofferenza fisica, la quale potrebbe anche consistere – almeno così si ritiene – in qualcosa di diverso dal concetto di malattia@. Analogamente, è controverso se il trauma psichico debba essere qualificato come disturbo medicalmente diagnosticabile o piuttosto come concetto più ampio. La giurisprudenza, fino ad ora formatasi al riguardo, ha ritenuto che detto trauma non debba “necessariamente tradursi in una sindrome duratura da «trauma psichico strutturato» (PTSD) e possa consistere anche in una condizione critica temporanea che risulti, per le sue caratteristiche, non integrabile nel pregresso sistema psichico della vittima, sì da minacciarne la coesione mentale e di tale condizione la norma richiede l’oggettiva riscontrabilità, che non esige necessariamente l’accertamento peritale, né l’inquadramento in categorie nosografiche predefinite, potendo assumere rilievo anche gli elementi sintomatici ricavabili dalle dichiarazioni della vittima, dal suo comportamento successivo alla condotta dell’agente e dalle concrete modalità di quest’ultima”@.
7.6. Sotto il profilo soggettivo, la fattispecie richiede un dolo generico. La previsione di un dolo intenzionale o specifico avrebbero contribuito ad una maggiore tipizzazione della fattispecie di tortura rispetto ad altre fattispecie limitrofe, segnatamente in relazione alla condotta del privato in cui manca l’elemento qualificante rappresentato dall’abuso del potere pubblico.
7.7. L’art. 613-bis, comma 2, contempla la diversa ipotesi nella quale i fatti di cui al primo comma vengano realizzati da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, abusando dei poteri o in violazione dei doveri inerenti la funzione o il servizio. La c.d. tortura di Stato risulta più gravemente sanzionata, in considerazione del maggior disvalore del fatto, offensivo anche del buon andamento della P.A. e della fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Controversa appare la configurazione dell’ipotesi in oggetto come circostanza aggravante della tortura di cui al primo comma o, piuttosto, come autonoma fattispecie incriminatrice. La formulazione della norma, mediante un mero rinvio ai fatti di cui al comma precedente, con la previsione di un inasprimento sanzionatorio legato alla sussistenza di una particolare qualifica soggettiva in capo all’agente, potrebbe fa pensare alla previsione di una circostanza aggravante. Sennonché, siffatta soluzione esporrebbe la previsione de qua all’assoggettamento della stessa al giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p., con conseguente neutralizzazione dell’aumento di pena, connesso al maggior disvalore dalla fattispecie in oggetto, tutte le volte in cui il giudice ritenga prevalenti o equivalenti circostanze attenuanti.
Tuttavia, per converso, considerando la tortura commessa dal pubblico ufficiale come fattispecie delittuosa autonoma piuttosto che circostanza aggravante, si giungerebbe alla conclusione paradossale di ritenere inapplicabili proprio al delitto più grave i consistenti aumenti di pena previsti dai commi 4 e 5 dell’art. 613–bis c.p. (solo in relazione ai fatti di cui al primo comma) se dalla tortura derivano lesioni personali, anche gravi o gravissime, o la morte del soggetto torturato. La tortura di Stato assumerebbe, così, la veste di un reato meno pesantemente sanzionato rispetto alla c.d. tortura privata, con tutto ciò che ne consegue@.
La giurisprudenza che, ad oggi, si è formata in relazione a siffatta questione ha comunque optato per la seconda soluzione interpretativa, affermando che “tortura pubblica non può assumere la forma circostanziale rispetto a quella privata, ma costituisce un reato autonomo sia per la natura del soggetto attivo, sia per l’indipendenza del trattamento sanzionatorio rispetto alla tortura privata e sia per la necessità di un obbligo di incriminazione specifico di quest’ultima fattispecie, non anche dell’altra, obbligo che sarebbe da considerare disatteso, con diretta collisione del diritto interno con quello internazionale, nel caso in cui si considerasse il secondo comma dell’articolo 613–bis del codice penale una circostanza di un altro reato, e cioè della tortura privata, il cui obbligo di incriminazione non era vietato ma neppure imposto, diversamente dalla tortura di Stato, dalle carte internazionali”@.
L’art. 613–bis, comma 3, prevede che il reato di tortura non sussista nel caso di sofferenze derivanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure limitative o privative dei diritti. La ratio della disposizione predetta è senza dubbio quella di limitare l’ambito di punibilità del nuovo reato di tortura, coerentemente con la previsione dell’art. 1 della Convenzione ONU contro la tortura, là dove sancisce che la definizione di tortura ivi offerta non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate. Nondimeno, siffatta previsione è stata ritenuta da più parti superflua, in presenza di scriminanti codificate già idonee ad escludere l’antigiuridicità della condotta del pubblico ufficiale in occasione dell’esecuzione dei propri doveri istituzionali (art. 51 c.p.). A ciò si aggiunga che l’esecuzione di misure legittime non dovrebbe mai attuarsi con le condotte (vincolate) richieste per l’integrazione del delitto in esame@.
7.8. Con la fattispecie di Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura (art. 613-ter) il legislatore ha previsto l’autonoma incriminazione di una condotta che non potrebbe configurare un’ipotesi di concorso di persone nel reato di tortura, in virtù del principio generale di cui all’art. 115 c.p. Si tratta, dunque, di una deroga a siffatto principio e di una previsione speciale rispetto all’art. 414 c.p. A temperare la forte anticipazione dell’intervento penale, il legislatore ha richiesto che, per essere penalmente rilevante, l’istigazione deve essere realizzata “in modo concretamente idoneo”, sì da richiedere al giudice una puntuale valutazione sulla effettiva e concreta pericolosità della condotta. Là dove l’istigazione venga accolta, l’istigatore risponderà di concorso morale nella fattispecie di cui all’art. 613-bis.
L’art. 613-ter configura un reato proprio in quanto può essere commesso solo da un soggetto pubblico nell’esercizio delle sue funzioni o del suo servizio. Soggetto qualificato deve essere anche il soggetto istigato.
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