Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta
5. Gli atti persecutori
5.1. La fattispecie di Atti persecutori è stata introdotta nel nostro ordinamento con d.l. n. 11 del 2009 (convertito con l. n. 38 del 2009). Il delitto oggetto di analisi è anche noto attraverso l’uso del termine di derivazione anglosassone “stalking”, tratto dal gergo venatorio (da to stalk, “fare la posta alla preda”), perché esso ben si presta a racchiudere le condotte con cui si realizza l’insistita interferenza nella sfera privata altrui, che – ad avviso degli psicologi – si manifesta per lo più con comportamenti ossessivi simili all’atteggiamento tenuto dal cacciatore di fronte alla sua preda. Siffatti comportamenti in realtà possono essere estremamente diversificati tra di loro, in conseguenza della disomogeneità delle relazioni vittima–stalker alla base degli atti persecutori. Per quanto, infatti, il terreno di elezione di siffatto fenomeno sia quello delle relazioni amorose, in realtà lo stalking è in grado di superare i confini sentimentali per giungere a manifestarsi nei diversi ambiti della vita di una persona. Da qui si comprende la difficoltà di tipizzare in modo soddisfacente siffatto fenomeno, destinato ad estrinsecarsi nei modi più vari, attraverso una molteplicità di atti intrusivi@. Al punto che anche la fattispecie descritta dall’art. 612-bis è stata investita da una questione di legittimità costituzionale (in realtà poi respinta dalla Consulta@), per asserito contrasto con il principio di determinatezza.
La collocazione sistematica della nuova fattispecie dopo il delitto di minaccia consente di individuare il bene giuridico tutelato nella tranquillità psichica e nella libertà di autodeterminazione della vittima in ordine alle modalità di conduzione della propria vita privata.
5.2. Sotto il profilo oggettivo, il delitto di atti persecutori ruota intorno a tre elementi strutturali: la condotta, che deve consistere in minacce e/o molestie; il carattere abituale del reato, che – richiedendo la reiterazione delle condotte – funge da ulteriore filtro selettivo dei fatti tipici; l’evento, che può concretizzarsi, anche alternativamente@, nel perdurante e grave stato di ansia o di paura, nel fondato timore per l’incolumità (propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva) o nella costrizione ad alterare le proprie abitudini di vita.
Sennonché, ciascuno dei requisiti anzidetti è suscettibile di essere interpretato in modo restrittivo o in termini meno rigorosi, con la conseguenza che, a seconda della tesi prescelta, ne risulta valorizzato o all’opposto annacquato il disvalore complessivo del fatto@.
5.3. La tipicità della condotta è caratterizzata per espressa volontà del legislatore dalla reiterazione di minacce e/o di molestie. Invero, dal dettato dell’art. 612–bis c.p. non appare chiaro se l’intenzione del legislatore fosse quella di richiamare le (già esistenti) fattispecie di cui agli artt. 612 e 660 c.p. (configurando, in tal modo, un reato abituale improprio con il quale punire fatti già di per sé costituenti reato), o, al contrario, quella di fare riferimento al significato comune dei due termini, svincolato da detti parametri normativi. Sennonché, per quanto l’orientamento prevalente interpreti detti concetti in senso laico@, in realtà la ricostruzione della tipicità della minaccia e della molestia attraverso un rinvio agli artt. 612 e 660 c.p. è la sola percorribile al fine di assicurare la necessaria determinatezza di una fattispecie già debolissima, sotto tale profilo, anche in relazione agli altri elementi costitutivi@. Peraltro, un’indicazione in tal senso parrebbe potersi desumere, altresì, da un passaggio della già citata pronuncia con la quale la Consulta ha respinto la questione di legittimità costituzionale della previsione in oggetto e nella quale si afferma che “il reato di cui all’art. 612-bis c. p. non attenua in alcun modo la determinatezza della incriminazione rispetto alle fattispecie di molestie o di minacce, di cui costituisce una specificazione”@.
5.4. Come anticipato, la fattispecie è costruita sul paradigma del reato abituale o a condotta reiterata@, poiché proprio nella serialità (più che nell’entità delle singole condotte che la compongono) il legislatore individua l’effettiva lesione del bene tutelato. Lo stillicidio persecutorio parrebbe rappresentare il nucleo di disvalore caratteristico dell’incriminazione, tale da distinguere il reato de quo da quelli integrabili attraverso le medesime condotte prese in considerazione dall’art. 612–bis c.p., singolarmente realizzate. In tale prospettiva, anche la giurisprudenza ha precisato che “nel delitto previsto dall’art. 612–bis c. p., che ha natura abituale, l’evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso e la reiterazione degli atti considerati tipici costituisce elemento unificante ed essenziale della fattispecie, facendo assumere a tali atti un’autonoma ed unitaria offensività, in quanto è proprio dalla loro reiterazione che deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che infine degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme descritte dalla norma incriminatrice”@.
I singoli comportamenti, dunque, per essere rilevanti debbono succedersi nel tempo. La determinazione di questo tempo, tuttavia, non è misurabile a priori, dipendendo dalle peculiarità del caso concreto. Inoltre, la norma, come sempre accade in relazione ai reati a condotta reiterata, non specifica quante condotte siano necessarie per la perfezione del reato. Si ripropongono, allora, le medesime questioni già sorte in relazione a fattispecie simili, quali – segnatamente – quella di maltrattamenti. Vero è che, se astrattamente anche due sole condotte già integrano la reiterazione@, si deve però tenere presente che la descrizione degli eventi tipici della fattispecie induce a ritenere che essa implichi una pregnanza offensiva difficilmente riscontrabile nella reiterazione di pochi comportamenti, magari distanziati nel tempo. Diversamente, come è stato osservato, combinando tra loro la latitudine del concetto di molestia e l’interpretazione minimale del requisito dell’abitualità, si arriverebbe all’estremo di considerare reato, un paio di inviti galanti non graditi, l’invio di due sms (o altrettanti omaggi floreali), la presenza del colpevole per la seconda volta in determinati luoghi frequentati dalla vittima@.
5.5. Nell’immediatezza dell’entrata in vigore della fattispecie in esame non era chiaro se essa fosse stata costruita come reato di evento o come reato di mera condotta di pericolo concreto, in considerazione della formula utilizzata dal legislatore nella descrizione del fatto tipico (“in modo da cagionare …ovvero da ingenerare….. ovvero da costringere….”)@. Invero, l’opinione largamente maggioritaria, recepita poi anche dalla giurisprudenza costituzionale@, si è presto orientata a ravvisare nella fattispecie de qua un reato di evento.
La descrizione degli eventi viene effettuata in modo piuttosto elastico e, di fatto, l’individuazione degli stessi è rimessa all’interpretazione del giudice, posto che “il ventaglio delle opzioni ermeneutiche è oltre modo ampio”@.
L’ansia e la paura sono concetti di difficile accertamento. A tal proposito, anche la Corte costituzionale@, nel rigettare la questione di legittimità sollevata in relazione alla fattispecie in oggetto, ha precisato che gli eventi che riguardano la sfera emotiva e psicologica “debbono essere accertati attraverso un’accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell’agente, che denotino una apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima”. Inoltre, l’aggettivazione “in termini di «grave e perdurante» stato di ansia o di paura e di «fondato» timore per l’incolumità, vale a circoscrivere ulteriormente l’area dell’incriminazione, in modo che siano doverosamente ritenute irrilevanti ansie di scarso momento, sia in ordine alla loro durata sia in ordine alla loro incidenza sul soggetto passivo, nonché timori immaginari o del tutto fantasiosi della vittima. A tale ultimo riguardo, deve rammentarsi come spetti al giudice ricostruire e circoscrivere l’area di tipicità della condotta penalmente rilevante sulla base dei consueti criteri ermeneutici, in particolare alla luce del principio di offensività, che per giurisprudenza costante di questa Corte costituisce canone interpretativo unanimemente accettato”@.
Tanto premesso, parrebbe che la Corte costituzionale abbia utilizzato il principio di offensività come canone ermeneutico utile anche al fine di “compensare” i denunciati vizi di indeterminatezza della fattispecie. Ne dovrebbe conseguire, dunque, che in sede applicativa la corretta applicazione di detto canone porti ad escludere la rilevanza penale di risultati inidonei a raggiungere la soglia indicata.
In tale prospettiva, anche nella giurisprudenza di legittimità si è precisato che l’evento tipico del perdurante e grave stato di ansia o di paura consiste in un profondo turbamento con effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima e non può risolversi in una sensazione di mero fastidio, irritazione o insofferenza per le condotte minatorie o moleste subìte@. Nondimeno, al di là delle formule di rito utilizzate dal diritto vivente, non risulta affatto agevole in concreto identificare la necessaria consistenza degli eventi offensivi idonea ad integrare il peculiare disvalore proprio del reato descritto dall’art. 612-bis.
Si deve, peraltro, rilevare come appaia ardua anche la delimitazione dell’evento de quo con riferimento al concetto di “malattia nella mente” tipico del reato di lesioni. Se, infatti, l’ansia e la paura venissero intese come vere e proprie forme patologiche (riscontrabili dalla scienza medica e quindi più agevolmente accertabili), si determinerebbe il rischio di una possibile sovrapposizione tra l’evento descritto dall’art. 612–bis e quello, appunto, di cui all’art. 582 c.p. Parrebbe, dunque, preferibile ritenere che per l’integrazione del reato di Atti persecutori sia sufficiente che lo stato d’ansia si risolva in un offuscamento psichico, con la conseguenza che, ove tale situazione degeneri in uno stato patologico, risulterebbe configurabile il reato di lesioni in concorso con quello di atti persecutori. Così, si è precisato che “ai fini della integrazione del reato di atti persecutori non si richiede l’accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori – e nella specie costituiti da minacce, pedinamenti e insulti alla persona offesa, inviati con messaggi telefonici o, comunque, espressi nel corso di incontri imposti – abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612–bis c. p. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 c. p.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica”@. Ma, ancora una volta, ci si chiede quale sia la soglia a partire dalla quale detta destabilizzazione possa integrare il reato. Il rischio è che la ricostruzione della fisionomia degli eventi offensivi sia davvero sempre rimessa all’apprezzamento del giudice.
5.6. Analoghe questioni interpretative si pongono, infatti, anche in relazione alle ulteriori locuzioni utilizzate per descrivere gli altri risultati offensivi, alternativamente, rilevanti per l’integrazione del reato, vale a dire il “fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto” e “l’alterazione delle proprie abitudini di vita”. In quest’ultimo caso, in particolare, la formulazione della fattispecie potrebbe prestarsi a ricomprendere al proprio interno la modifica sia di comportamenti che appaiono di scarsa rilevanza rispetto alla vita quotidiana (ad esempio, la modifica del tragitto per recarsi al lavoro, limitandosi a cambiare la strada percorsa), sia comportamenti di maggior rilievo (ad esempio, la necessità di cambiare città o posto di lavoro). Sicché, sarà compito dell’interprete limitare la portata della disposizione ritenendo realizzato l’evento (e quindi l’offesa al bene della libertà morale della persona offesa) solo con riferimento alla modifica di abitudini che abbiano una “rilevanza” per la vita dell’offeso e la cui modifica determini quindi un’effettiva compromissione della sfera di libertà di autodeterminazione@. In tale prospettiva, la giurisprudenza ha precisato che “l’alterazione o il cambiamento delle abitudini di vita, che costituisce uno dei possibili eventi alternativi contemplati dalla fattispecie criminosa di cui all’art. 612–bis c. p., non è integrato dalla percezione di transitori disagi e fastidi nelle occupazioni di vita della persona offesa, ma deve consistere in una costrizione qualitativamente apprezzabile delle sue abitudini quotidiane”@. In altre parole: “per alterazione delle proprie abitudini di vita si deve intendere “ogni mutamento significativo e protratto per un apprezzabile lasso di tempo dell’ordinaria gestione della vita quotidiana, indotto nella vittima dalla condotta persecutoria altrui (…), finalizzato ad evitare l’ingerenza nella propria vita privata del molestatore”@. Si è, inoltre, aggiunto che “l’evento tipico della alterazione o cambiamento delle abitudini di vita della persona offesa può essere anche transitorio, ma non occasionale”@.
5.7. La fattispecie è procedibile a querela, salvi i casi espressamente indicati. In deroga alla regola generale di cui all’art. 124 c.p., comma 1, il termine per proporre la querela è di sei mesi. Fino a quando non sia stata proposta la querela, la vittima può rivolgersi all’autorità di pubblica sicurezza con un esposto nel quale richiede l’adozione da parte del questore di un provvedimento formale di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta (art. 8 d.l. n. 11 del 2009). Il questore, se ritiene fondata l’istanza, ammonisce oralmente il soggetto, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge. Il legislatore, peraltro, ha costruito una specifica aggravante del delitto di atti persecutori, proprio per il caso in cui il soggetto condannato sia già stato in precedenza raggiunto dall’ammonimento (art. 8, comma 3, d.l. n. 11 del 2009), stabilendo, altresì, in questo caso la procedibilità d’ufficio (art. 8, comma 4, d.l. n. 11 del 2009).
155 di 207