testi ed ipertesti

Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta

2. La violenza privata

 

 2.1. Il delitto di Violenza privata è costruito come reato di evento a condotta vincolata e consiste nel costringere altri a fare, tollerare od omettere qualcosa con il mezzo della violenza personale fisica, sia essa propria o impropria, della violenza personale psichica (minaccia) o della violenza reale, se diretta a coartare l’altrui volontà (si pensi al proprietario che per fare uscire l’inquilino da un immobile rompa i vetri delle finestre, esponendolo ai rigori della temperatura esterna).

 Invero, anche in relazione alla fattispecie in oggetto, spesso la giurisprudenza interpreta la nozione di violenza in un’accezione amplissima, considerando tale sostanzialmente qualunque comportamento idoneo al raggiungimento dello scopo finale che è quello di costringere altri a fare o tollerare qualcosa@. Siffatto processo di svuotamento della tipicità è stato realizzato soprattutto mediante il ricorso al concetto di violenza c.d. “impropria” o “implicita”, il quale ha consentito di annacquare completamente il disvalore di azione (che dovrebbe, invece, essere espresso dalle peculiari modalità della condotta indicate dal legislatore), concentrando la rilevanza del fatto sul solo risultato di condizionamento dell’altrui volere, ottenuto dall’agente con qualunque mezzo. Sennonché, siffatta smaterializzazione della violenza – sia pure dettata dall’esigenza di apprestare la più ampia tutela al bene giuridico protetto – trasforma la fattispecie di violenza privata in reato di evento c.d. a forma libera, depotenziando il riferimento alle modalità di condotta, che dovrebbero invece selezionare (e delimitare) l’area del penalmente rilevante@. In tal modo, la fattispecie in esame diviene uno strumento particolarmente versatile attraverso il quale sanzionare una pluralità eterogena di comportamenti antisociali@, sulla base della premessa che “integra il delitto di violenza privata la condotta preordinata a rendere anche solo disagevole una lecita modalità di esplicazione del diritto della persona offesa”@.

 Non mancano, tuttavia, prese di posizione a favore di una lettura restrittiva della fattispecie, volte a scongiurare “quelle derive interpretative – ricorrenti soprattutto nella giurisprudenza di legittimità e meno attestate invece in quella di merito – che ravvisano contorni violenti in ogni «mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di autodeterminazione e di azione» (….). Tali ultime soluzioni ermeneutiche – oltre a fondarsi su una nozione di violenza priva di riscontri persino nel linguaggio comune – finiscono con l’ampliare arbitrariamente e potenzialmente senza controllo l’area di rilevanza penale, confondendo la condotta con l’evento costrittivo (…)”@.

 Il problema è, infatti, evidenziato in modo emblematico da alcuni casi ricondotti dalla giurisprudenza di legittimità allo spettro applicativo dell’art. 610 c.p., in aperto contrasto con la struttura di detto reato. La dilatazione interpretativa della fattispecie emerge chiaramente, per esempio, in relazione ai casi nei quali sono state qualificate come forme di violenza privata le riprese abusive nei bagni pubblici. In pronunce che hanno affrontato siffatta questione non solo si ribadisce che, ai fini dell’integrazione del reato non è richiesta una condotta esplicitamente connotata da violenza o minaccia – posto che il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione – ma si ritiene addirittura sufficiente una percezione della coazione psichica della persona offesa sopravvenuta rispetto all’esaurimento della condotta intrusiva@. In altre occasioni ancora, il concetto di violenza è stato a tal punto snaturato da far ritenere integrato il reato anche in situazioni di mero approfittamento di un preesistente stato di incapacitazione@, tale da non rendere neppure possibile la percezione da parte della vittima dell’altrui condotta intrusiva. Conclusione, questa, in contrasto con la presa di posizione delle Sezioni Unite della Cassazione, ad avviso delle quali “il concetto di costrizione, postula il dissenso della vittima, la quale subisce la condotta dell’agente e per conseguenza di essa è indotta a fare, tollerare od omettere qualche cosa, in contrasto con la propria volontà (….)”. Sicché, per esempio, nei confronti di un paziente anestetizzato (questo era il caso oggetto di attenzione) il chirurgo che si discosti dall’intervento concordato e ne pratichi un altro “potrà dirsi commettere un fatto di abuso o di approfittamento di quella condizione di «incapacitazione» del paziente, ma non certo di «costrizione» della sua volontà, proprio perché, nel frangente, difetta quel requisito di contrasto di volontà fra soggetto attivo e quello passivo che costituisce presupposto indefettibile, insito nel concetto stesso di coazione dell’essere umano, «verso» (e, dunque, per realizzare consapevolmente) una determinata condotta attiva, passiva od omissiva”@.

 2.2. La condotta violenta o minacciosa deve, infatti, sempre atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un duplice evento ulteriore: lo stato di costrizione della vittima, da un lato, e il fare, tollerare od omettere qualche cosa, quale effetto di detto stato di coazione, dall’altro lato. Sicché, il delitto di violenza privata non è configurabile “allorquando gli atti di violenza non siano diretti a costringere la vittima ad un «pati», ma siano essi stessi produttivi dell’effetto lesivo, senza alcuna fase intermedia di coartazione della libertà di determinazione della persona offesa”@.

 Inoltre, ai fini dell’integrazione del delitto di violenza privata “è necessario che la violenza o la minaccia realizzino la perdita o, comunque, la significativa compressione della libertà di azione o della capacità di autodeterminazione del soggetto passivo, essendo, invece, penalmente irrilevanti, in virtù del principio di offensività, i comportamenti che, pur astrattamente condizionanti, si rivelino in concreto inidonei a limitare la libertà di movimento o a condizionare il processo di formazione della volontà altrui”@.

 Ad avviso di diffusa dottrina e giurisprudenza anche l’uso di un rimedio giuridico legittimo, perché autorizzato dalla legge, potrebbe dar luogo a violenza privata se diretto a costringere ad un comportamento diverso da quello per ottenere il quale tale mezzo è concesso dalla legge: si pensi alla minaccia di denuncia o querela o di un’azione giudiziaria effettuata non per impedire la commissione di un reato od ottenere il pagamento di un credito, ma per finalità diverse. Invero, a ben riflettere, in queste ipotesi l’abuso del diritto, là dove ritenuto penalmente rilevante, finirebbe per creare un’area di illiceità non prevista dal legislatore@. Nella minaccia, infatti, il danno ingiusto (elemento costitutivo espresso della fattispecie ai sensi dell’art. 612 c.p.) deve essere illecito in sé. A nulla rileva, invece, l’ingiustizia del fine perseguito dall’agente. Sicché, se si ritenesse di poter desumere l’ingiustizia del danno dalla mera ingiustizia del fine, si finirebbe per creare in via interpretativa una nuova figura di reato, in aperto contrasto con il principio di legalità, che, quale “presidio garantistico del favor libertatis, ammette solo divieti espressi, riconoscibili ex ante, mentre è refrattario all’abuso del diritto, quale regola di giudizio che consente una rivalutazione a posteriori e in malam partem dell’azione consentita”@.

 2.3. La perfezione si ha nel momento e luogo del comportamento attivo, omissivo o passivo coartato. Momento e luogo della perfezione possono, dunque, essere diversi da quello di estrinsecazione della vis. Il tentativo è configurabile nella duplice forma del tentativo compiuto (allorché all’azione violenta non faccia seguito l’effetto coercitivo o comunque il comportamento attivo o omissivo) e del tentativo incompiuto (allorché neppure l’azione venga interamente compiuta).

 2.4. Il reato è a dolo generico. L’agente deve rappresentarsi e volere tanto le modalità della condotta, quanto il loro risultato costrittivo. Se la condotta descritta dall’art. 610 c.p. viene realizzata al fine di esercitare un preteso diritto azionabile dinanzi al giudice, potrebbero risultare integrati gli estremi del diverso reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, di cui agli artt. 392 e 393 c.p.

 

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