Sussidiario di diritto penale
Parte speciale
a cura di F. Giunta
5. Limitazioni della libertà personale e consenso dell’avente diritto
5.1. Uno dei problemi maggiormente dibattuti in relazione alla possibile configurabilità del sequestro di persona concerne l’efficacia scriminante del consenso dell’avente diritto. La libertà personale, infatti, è per lo più qualificata come bene solo parzialmente disponibile, sicché il consenso parrebbe scriminare solo limitazioni circoscritte della libertà, ma non la privazione totale della stessa. Inoltre, posto che il consenso è sempre revocabile, integrerebbe la fattispecie di sequestro di persona ogni limitazione della libertà dopo la revoca di esso.
5.2. La problematica in oggetto è stata, in un recente passato, chiaramente esemplificata da alcune note vicende che hanno interessato casi di partecipazione volontaria a comunità terapeutiche “chiuse” strutturate per favorire la disintossicazione di tossicodipendenti. La rilevanza giuridica della questione si è accompagnata ad un rilevante interesse mediatico, che, di recente, ha condotto anche alla produzione di una serie televisiva documentaristica@. Il riferimento, come è facile intuire, va ai fatti di San Patrignano, comunità alla quale migliaia di giovani, a partire dagli anni ‘70, si sono rivolti, accettando spontaneamente le condizioni essenziali per l’ammissione, condizioni a tutti note e costituite dalla serietà del proposito di disintossicarsi, senza fare uso di stupefacenti o psicofarmaci, e dal consenso ad essere trattenuti anche contro la propria volontà nella fase di astinenza.
Sennonché, nel corso degli anni (segnatamente nel primo periodo di vita della comunità) si verificarono alcuni episodi in cui detti giovani avevano cercato di fuggire ed erano stati trattenuti contro la loro volontà, sul presupposto che essi potessero rappresentare un pericolo per sé e per gli altri, venendo chiusi per diversi giorni in ambienti malsani, caratterizzati da condizioni igienico-sanitarie precarie. Per questa ragione, il fondatore e direttore della citata comunità venne rinviato a giudizio con l’accusa di sequestro di persona.
La tesi difensiva sostenuta nel corso del processo ruotava attorno al consenso espresso da ciascun ospite all’ingresso in comunità, con la consapevolezza che sarebbe stato trattenuto lì con ogni mezzo, fino a quando il recupero non potesse considerarsi concluso. Un’eventuale revoca del consenso inizialmente prestato, quindi, avrebbe dovuto considerarsi improduttiva di effetti, in quanto direttamente collegata proprio a quella condizione di astinenza da cui gli ospiti intendevano liberarsi con il loro ingresso a San Patrignano.
Il Tribunale di Rimini@, chiamato a pronunciarsi in primo grado, non condivise però le argomentazioni sostenute dalla difesa, ritenendo, in particolare, che la revoca del consenso intervenuta successivamente all’ingresso in comunità non potesse essere ritenuta priva di effetti sulla sola base dell’assunto, generalizzato e apodittico, di una incapacità del tossicodipendente di determinarsi in maniera consapevole nella fase dell’astinenza.
La Corte di appello di Bologna@, invece, ritenne che il delitto di sequestro di persona fosse scriminato dal consenso prestato dai tossicodipendenti ospiti della comunità all’atto di ingresso, poiché questi ultimi avevano anticipatamente acconsentito alla privazione della propria libertà “ora per allora”, cioè per il momento in cui la loro manifestazione di voler uscire sarebbe stata certamente attribuibile all’irrefrenabile “sete della droga”. Nondimeno, in tale prospettiva, dovevano ritenersi necessarie due ulteriori condizioni perché la condotta potesse ritenersi scriminata: 1) la privazione della libertà non si doveva protrarre oltre il tempo strettamente necessario al recupero del soggetto; 2) le modalità tramite le quali dette privazioni venivano attuate non dovevano ledere la dignità della persona umana. Il consenso, dunque, avrebbe potuto operare in funzione scriminante solo per le forme di trattenimento poste in essere senza il ricorso a modalità umilianti. Riguardo, invece, ai trattenimenti posti in essere ricorrendo (in senso stretto) alle catene, la Corte d’appello ritenne di poter fare ricorso alla disciplina dell’eccesso colposo (art. 55 c.p.) nella scriminate del soccorso di necessità ex art. 54 c.p. Infatti, se gli ospiti della comunità avessero fatto ritorno al consorzio civile sulla base di una decisione assunta per effetto dell’astinenza, l’esito inevitabile sarebbe stato quello di una ricaduta nell’assunzione di eroina, con conseguenze dannose per se stessi e per la società. La segregazione e l’incatenamento, allora, avrebbero avuto unicamente lo scopo di evitare il pericolo attuale di un danno grave alla persona, pur trattandosi di mezzi sproporzionati rispetto all’obiettivo perseguito. Ma, essendo la fattispecie di sequestro di persona prevista dall’ordinamento solo nella forma dolosa, il pur ritenuto eccesso colposo condusse a escludere una responsabilità penale degli imputati.
La Corte di cassazione confermò la sentenza di assoluzione con una pronuncia che, tuttavia, non si allineò del tutto a quella della Corte d’Appello nell’individuazione delle scriminanti di riferimento@. Se, in particolare, la sentenza di secondo grado fece ricorso alla coppia consenso dell’avente diritto-stato di necessità, i giudici di legittimità ritennero sussistenti i soli estremi di uno stato di necessità erroneamente supposto, rispetto al quale, per i trattenimenti realizzati con modalità umilianti, far operare l’eccesso colposo ex art. 55 c.p.
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